PRIMA PAGINA – Le Stelle cadenti sono quelle Michelin
Alcune cadono, altre si spengono, altre vanno a brillare altrove, alcune nascono: sono le famose (per alcuni, famigerate) Stelle Michelin. Ultimamente fa più notizia il ristorante che le perde o le rifiuta e lo stellato che chiude, rispetto a chi le ha ottenute e riesce a mantenerle nel tempo. Nel 2026 sarà passato un secolo da quando la rossa guida francese, nata ad inizio ‘900 per fornire informazioni utili ai primi viaggiatori su quattro ruote, iniziò ad assegnare una stella ai ristoranti, visitati e recensiti dai suoi ispettori in incognito. Cinque anni dopo le stelle passarono ad una scala da una a tre, ed ancor oggi il massimo punteggio celebra l’eccellenza assoluta nell’arte culinaria.
In Italia, l’edizione 2025 della guida ha assegnato tre stelle a 14 ristoranti, due stelle a 38 ed una a 341. Acquisire questo riconoscimento è l’ ambitissimo coronamento di una carriera, anche se alcuni chef l’hanno rifiutata o restituita.
Il caso più eclatante fu quello di Gualtiero Marchesi, il fondatore della “nouvelle cuisine” in Italia. Restituì le stelle nel 2008, dichiarando che “è da ingenui affidare i successi dei ristoranti italiani ad una guida francese”, mettendo in guardia i giovani, “la cucina è passione, non può essere subordinata ai voti”.
Consiglio accolto da tre cuochi under 40 del “Giglio” di Lucca che, lo scorso anno, hanno restituito la stella che detenevano da un lustro. Vogliono tornare ad essere un locale che li rappresenti, dove non si debba passare ore seduti al tavolo, con piatti a prezzi accessibili.
E c’è chi le stelle non le rifiuta, ma tira giù la serranda.
È di metà febbraio l’annuncio della chiusura di “Magorabin” a Torino, una stella da 13 anni.
Secondo lo chef, Marcello Trentini, la ristorazione definita “fine dining” (cucina raffinata) non è più sostenibile economicamente.
Lo avevano preceduto di qualche giorno “Accursio” dello chef Craparo, fra i più talentuosi del Sud e “Bros” a Lecce, primo stellato del Salento.
Chiusura a febbraio anche per Felice Lo Basso, pugliese da 11 anni trasferitosi a Milano, che ha denunciato ai giornali la carenza di clientela italiana e di turisti e la situazione salariale insostenibile per i dipendenti, 1.300/1.400 euro mensili, una miseria per vivere nella metropoli lombarda. Aprirà un locale a Lugano. Dichiarazioni che ricordano quelle dello chef René Redzepi, che ha chiuso lo scorso anno il pluristellato “Noma” di Copenaghen, per cinque volte giudicato il miglior ristorante al mondo da “The World’s 50 Best Restaurant”, la classifica stilata dal mensile britannico “Restaurant”. Costi e ritmi non sono più sostenibili ed è eticamente scorretto avere membri dello staff che lavorano gratis, pur di accedere alla cucina, dichiarò lo chef danese. Problematiche non solo italiane, quindi. A febbraio ha chiuso a Londra il due stelle “La Dame de Pic London” della pluristellata chef francese Anne Sophie Pic. Sempre a Londra ha cessato l’attività il tre stelle dello chef svedese Frantzen ed a fine dello scorso anno ha chiuso i battenti anche il locale del giudice di Masterchef, Giorgio Locatelli, dopo 23 anni di attività. Ma l’antesignano delle serrate “eccellenti” è stato Ferran Adrià, l’inventore della cucina “molecolare”. Dopo vent’anni di attività chiuse nel 2011 il suo “El Bulli” che, nonostante i cento clienti serviti ogni giorno di apertura, perdeva mezzo milione di euro ogni anno. Come si spiegano quindi realtà a tre stelle come il Gruppo “Da Vittorio” con ricavi annui superiori ai 100 milioni di euro o come Cannavacciuolo e Alajmo che si aggirano fra i 20 ed i 30 milioni di fatturato? È sufficiente farsi un giro sui loro siti internet per capire che non si tratta solo di pura ristorazione. La famiglia Cerea del “Da Vittorio” conta 5 ristoranti, due hotel, una tenuta per banchetti ed eventi, un servizio di take away ordinabile online ed una scuola di cucina.
Cannavacciuolo, oltre a Villa Crespi, ha 5 resort di lusso, un bistrot, un laboratorio di pasticceria, quattro negozi di “smart gourmet” ed un fornitissimo shop online. Alajmo “firma” 13 locali, organizza catering in tutto il mondo e vende online food, vino, abbigliamento, articoli per la casa ed attrezzi da cucina. Vere e proprie holding commerciali, con centinaia di dipendenti, dove viene difficile immaginare i pluristellati chef in cucina, impegnati a sperimentare nuovi gusti e sapori.
Chi si ferma alla sola gestione del proprio locale, se non è affiancato da un più che bravo manager, rischia di fare la fine di Cracco, un paio di anni fa indebitato per milioni di euro, o di uno chef celebratissimo, Davide Scabin, passato dall’inventare il “cyber egg” alle aule del tribunale fallimentare. Messi all’asta vini pregiati, pentole, piatti e posate del suo ristorante Combal.Zero, chiuso cinque anni fa. Si avvicina quindi la fine della cucina raffinata, dell’innovazione e delle sperimentazioni azzardate, come ormai molti affermano, anche fra gli addetti al settore ?
Un pasto in uno stellato resta un evento memorabile, ma si tratta di un’esperienza che rischia di diventare più una fredda rappresentazione della bravura della brigata di cucina e dell’ impeccabilità della gestione in sala, a scapito di convivialità e leggerezza.
Il successo che stanno riscontrando le “osterie contemporanee” ed i locali come la trattoria milanese “Trippa”, sempre sold out da anni, indicano un ritorno alla semplicità ed alla tradizione.
“Questa è una delle cene migliori che ho fatto da quando ho chiuso El Bulli”, la recensione di Ferran Adrià, il genio indiscusso della destrutturazione, pubblicata su Instagram dal ristorante.
Era stato in un pluristellato? No, aveva cenato proprio da “Trippa”.
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