L’Isola dei Famosi: una lezione di fine antropologia da prime time
C’è una realtà inconfutabile, davanti alla quale ogni snobismo è sprecato: smettiamola di pensare a L’Isola dei Famosi solo come un reality show dove gente in cerca di fama si ritrova a sopravvivere alla fame ad uso e consumo di un pubblico superficiale, perché il rischio è che a vestire i panni dei superficiali siamo noi. Il programma, partito dalla Rai e sbarcato ormai da anni in casa Mediaset, è un fenomeno di costume – uno dei più longevi, per altro – che, nel bene e nel male, racconta più di quanto molti editorialisti riescano a fare su intere pagine di riflessione sociale. Ci sono tutti gli ingredienti che inchiodano lo spettatore e mettono a nudo una squadra di concorrenti eterogenea, fragile, combattiva, contraddittoria. Uno studio antropologico in chiave pop, dove il naufragio è solo il pretesto per osservare la deriva – a volte esilarante, a volte tragica – dei comportamenti umani. Lo scenario è sempre lo stesso: una spiaggia, un inviato, uno studio. Ma il contesto, in un Paese in cui la fiducia nella politica è talmente in calo da registrare percentuali di voto sempre più basse, genera una delle più affascinanti dicotomie contemporanee: quando dal voto si passa al televoto, la gente si mobilita, e non la ferma nemmeno il prezzo dell’sms, quando si tratta di mandare a casa qualcuno. E se questo non è un termometro sociale, cosa lo è? Bastasse poi un messaggino, o anche un WhatsApp per rimandare a casa i governi che affondano i Paesi, saremmo tutti lì, armati di spunta blu, per essere sicuri che il messaggio arrivi a destinazione.
E a proposito di messaggi, uno su tutti arriva dai vertici. La nuova edizione del programma, partita su Canale 5 con Veronica Gentili alla conduzione – una scelta che segna un cambio di passo dopo anni di conduzioni rassicuranti – ha rilanciato la sfida tra sopravvivenza e sovraesposizione. Con Simona Ventura opinionista e Pierpaolo Pretelli come inviato, la macchina dell’intrattenimento si rimette in moto con volti noti e outsider, che nell’epoca del crollo delle certezze e del bisogno spasmodico di attenzione, si prestano a essere giudicati h24 da un pubblico che, pur dichiarando di disprezzare la tv spazzatura, poi la vota compulsivamente.
Mario Adinolfi, Dino Giarrusso, Alessia Fabiani, Carly Tommasini, Lorenzo Tano: i volti già in mano ai bookmaker. Un casting che mischia il già visto con il mai del tutto capito. E forse un’occasione per rivalutare in un contesto fuori contesto. Ex politici, influencer, figli d’arte e meteore riciclate in cerca di rivincita. Tutti pronti a giocarsi (e lo sanno) la dignità e la tenuta psicologica sotto il sole dei tropici, con il rischio sempre presente di diventare meme. Eppure funziona. Non solo come spettacolo, ma come osservatorio sociale. E i concorrenti che anziché sfidarsi tra loro, sfidano loro stessi, hanno già il patino di salvataggio sotto le natiche.
Ma veniamo a noi, potenti detentori del telecomando, al quale spesso chiediamo “altro”, ma che in questa prima parte dell’anno abbiamo bocciato senza passare dal secondo grado di giudizio. Numero di nuovi programmi chiusi prima del tempo: tutti. Ma L’Isola continuiamo a guardarla. Ogni litigio, ogni alleanza, ogni pianto davanti a una noce di cocco racconta qualcosa che ci riguarda più di quanto vorremmo ammettere. I meccanismi di esclusione, il bullismo travestito da strategia, la costruzione del leader del branco: è sociologia applicata, è Darwin in diretta, è uno specchio meno deformato di quanto si pensi. Il tutto amplificato dal tifo digitale, dai commenti social, da un pubblico che si trasforma in corte marziale con hashtag al vetriolo. E se l’ossessione per i social isola, L’Isola invece unisce: uniti nella fame, quasi più che nella fama, anche i più diversi diventano uguali. Ma solo uno deve salvarsi, quindi si sa che prima o poi si scanneranno. I pop corn li hanno inventati apposta.
E quando la produzione scopre un accendino clandestino – com’è successo– si parla di infrazione del regolamento come se si trattasse di un processo penale. La pena è pubblica, collettiva. La gogna è il format. Nessuno si salva, ma tutti ci provano. Compresi quelli da casa, che sognano di essere lì, o almeno di decidere chi non lo sarà più. Il naufragio è la scusa, la dinamica è la fame: di cibo, ma soprattutto di visibilità.
Snobbarlo è inutile. Perché L’Isola dei Famosi non è la periferia dell’intrattenimento, è il suo cuore pulsante. È lì che si misura il termometro dell’umore collettivo, della sopportazione, del senso della giustizia (quella da divano foderato di toga), dell’identificazione. Chi vince non è mai chi merita, ma chi rappresenta un pezzo di pubblico più vocale, più organizzato, più fedele. Come in politica, appunto. Con la differenza che qui il responso arriva in tempo reale e senza astensionismo.
Alla fine, anche i più scettici un’occhiata la danno. Perché L’Isola è come quei test che dicono tutto di te in un pugno di domande: chi tifi, chi detesti, chi faresti fuori. E in un mondo dove l’opinione pubblica si divide su tutto, c’è qualcosa di disarmante – e forse rassicurante – nel vedere che per una volta tutti guardano la stessa cosa. Anche solo per criticarla. Ma intanto la guardano.
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