Ve la ricordate la faccenda dell’acquisto italiano del supercaccia F-35 di produzione Usa per le nostre forze armate – che tanto rumore creò per lungo tempo tra partiti e schieramenti politici in Parlamento – finita con un primo contratto di fornitura da 90 esemplari più un secondo di ulteriori 25 per complessivi 32 miliardi di Euro a carico delle pubbliche casse?
Ebbene – incredibile a dirsi – ma forse una volta tanto l’Italia, a paragone, ha risparmiato. Perché la scorsa settimana appena dopo il confine, precisamente in Svizzera, agli elvetici è stata formalizzata dagli Usa una richiesta di maggiorazione di pagamento connessa all’acquisto dei loro F-35 – per una non modica cifra oscillante tra i 650 milioni e i 1,3 miliardi di dollari, secondo lo “Zio Sam”dovuta per l’elevata inflazione degli ultimi anni registrata negli Usa e il forte aumento dei prezzi di materie prime ed energia conseguente alla pandemia da Covid – ulteriore rispetto ai 6 miliardi di franchi svizzeri già “spesi” per i 36 caccia ordinati!
E poiché i ”neutrali” svizzeri sono notoriamente molto attenti al denaro pubblico e da loro “tanto paga Pantalone…” è proverbio che non esiste o comunque non funziona, la “fatturina” sta terremotando – politicamente e militarmente – le valli e i quattro cantoni. Breve riepilogo a beneficio del lettore: l’F-35 statunitense è un caccia multiruolo di V°generazione (attualmente gli Usa stanno sviluppando la VI°), sviluppato dal 2000 anche con partecipazione italiana diretta, tecnica ed economica. Il progetto, costato una cifra “monstre” rispetto al budget iniziale previsto per i ritardi e le continue modifiche nel tentativo di risolvere problematiche strutturali, software e hardware, portò ad un certo punto addirittura sull’orlo del fallimento il costruttore Lockeed Martin – che è solo la più grande industria di produzione d’armamenti bellici al mondo – e per questo negli anni si è guadagnato in molti ambienti aeronautici il poco simpatico appellativo di “Fiasco 35”.
Ciononostante, data la portata dell’investimento speso, è stato sostenuto in ogni modo immaginabile dalla Difesa statunitense nonché venduto a parecchie nazioni straniere, tra cui la Svizzera. Che avendo il 100% del suo territorio di tipo montano ovviamente deve, in teoria, affidarsi per la propria difesa ad una Aeronautica forte e moderna, a dispetto della sua ben nota “neutralità”. Quest’ultima – perlomeno nel senso classico – fu decisa dal Consiglio di Vienna del 1815 e rappresenta caposaldo che dovrebbe garantire alla piccola nazione assenza di conflitti, ma la partecipazione elvetica alla Nato e missioni congiunte Onu già da tempo ha messo in discussione la percezione di tale “status”. Sia come sia, i precisi elvetici già nel 2022 decisero di dotarsi di 36 esemplari del caccia. Poiché però acquistare aerei da combattimento non è come comprare utilitarie, i jet saranno consegnati tra il 2027 e il 2030 sulla base di un preciso contratto, per una valore d’acquisto totale pari a 6 miliardi di franchi svizzeri e 2,9 di “costi compensati”.
Ma cosa sono quest’ultimi? I “costi di compensazione militari” (o offset) è locuzione che si riferisce agli accordi accompagnatori la vendita di armamenti ed equipaggiamento militare a un Paese, in cui il venditore si impegna a trasferire tecnologia, effettuare investimenti o creare posti di lavoro nella nazione acquirente, anche per co-produzione e manutenzione, acquistare beni o servizi dal compratore. Questi costi non sono inclusi nel prezzo base d’acquisto, ma rappresentano un impegno aggiuntivo per compensare l’impatto economico e industriale della transazione sul Paese acquirente, e sono spesso negoziati tra i governi mirando a bilanciare l’impatto economico e industriale delle acquisizioni militari, trasformandole in opportunità di sviluppo per chi acquista (e in fondo sostenere reciprocamente le due economie). Pertanto, i “costi di compensazione”- in genere circa 1/20 del costo d’acquisto dell’armamento – non sono costi diretti del prodotto in sé, quanto piuttosto un impegno aggiuntivo per garantire che l’acquisizione abbia conseguenze militari ma anche benefici economici e industriali. Bene, torniamo all’attualità: a settembre 2020 nella “patria del gruviera” si tenne un serio referendum popolare (impensabile, da noi!), conclusosi con la vittoria del “SÌ” per soli 8000 voti, onde autorizzare l’acquisto dei velivoli con limite massimo di spesa a carico delle pubbliche casse per 6 miliardi di franchi svizzeri. Al contempo, tra il 2020 e il 2022 “Stop F-35”, comitato composto dai Socialisti, dai Verdi e dal Gruppo per una Svizzera senza esercito (Gsoa) aveva però lanciato un’iniziativa contro l’acquisto tout court dell’F-35, ritenendolo uno spreco immotivato di pubblico denaro, contrapponendosi ad “Alleanza Sicurezza Svizzera”, altro comitato di sostenitori dell’acquisto. Tuttavia, le proteste dei primi non sortirono grandi effetti, e a settembre 2022 venne così siglato il relativo contratto tra Armasuisse (Ufficio per l’armamento svizzero) e il governo Usa. Tutti felici, molti sorrisi e foto di rito tra i due governi, grandi dichiarazioni positive circa i relativi costi compensati, anche Heidi e le mucche sembravano contente. Tutto è filato liscio, e in seguito si decise addirittura di assemblare alcuni F-35 negli stabilimenti italiani di Leonardo a Cameri. Fino però ad una mattina di febbraio 2025. Quando una missiva della DSCA (Defense Security Cooperation Agency) Usa informava gli elvetici che il prezzo contrattualmente concordato non era fisso poiché “frutto di un malinteso” (senza però quantificare il “quantum”). E naturalmente la ministra della Difesa federale Viola Amherd lo riferì subito ai colleghi, ma la cosa non ebbe seguito poiché si sa che già solo per natura gli svizzeri sono precisi, e dunque figurarsi se potevano credere che un simile contratto non fosse millimetricamente corretto, valido, e soprattutto “fisso”! Tempo però solo quattro mesi e l’apparente ‘boutade’ si è trasformata in panico, poiché la scorsa settimana la DSCA ha fissato l’entità della a maggiorazione e richiesto il relativo pagamento. Apriti cielo! Aldilà del miliarduccio e passa di franchi in più per l’erario elvetico il problema è innanzitutto seriamente politico, perché l’autorizzazione popolare venne data per (soli) sei miliardi – e non sette – e già prima del weekend… invece di caccia sono cominciati a volare stracci. Così il consigliere nazionale socialista Fabian Molina, membro della commissione della politica di sicurezza: “Per far passare l’F-35, si è mentito e imbrogliato, deridendo e mettendo a tacere le voci critiche. E ora il popolo si trova a dover affrontare un danno da miliardi”. Inconcepibile, per uno svizzero! E ora? Un’unica soluzione ancora non c’è: nel Consiglio Federale alcuni sostengono che la Svizzera potrebbe rinunciare alla metà dei costi compensati pattuiti per saldare la differenza richiesta, altri che sia necessario un nuovo referendum popolare autorizzativo, altri ancora che giocoforza andrà ridotto il numero di jet ordinati. Di base, comunque, gli svizzeri non vorrebbero pagare ritenendo assolutamente “vincolante e fisso” il prezzo a suo tempo pattuito. Ma dovranno – volenti o nolenti – trovare rapidamente una soluzione per via diplomatica, anche perché la tipologia contrattuale esclude tecnicamente “la composizione per via giudiziale delle controversie”. E sull’intera questione, soprattutto, pesa un enorme macigno, come chiarito dall’attuale ministro della Difesa, Martin Pfister: “Il costo di una eventuale rescissione non è stato nemmeno stimato. Ma in ogni caso la Svizzera non sarebbe più in grado di garantire la sicurezza dello spazio aereo e della popolazione a partire dal 2032, poiché gli attuali aerei da combattimento F/A-18 avranno raggiunto la fine del loro ciclo di vita”. Ah, caro Pantalone…