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Nadia Chiariello, verità dopo 46 anni: “Fu un pestaggio, non un incidente”

Il giallo della scomparsa della 17enne, ora la famiglia: "Ora vogliamo giustizia"

di Ivano Tolettini -


Un giallo che si infittisce perché non fu un incidente. Nadia Chiariello, l’impiegata di 17 anni scomparsa il 10 gennaio 1979 e ritrovata sei giorni dopo in una buca coperta di neve, lungo la strada vicino alla conceria Italia di Arso di Chiampo, nel Vicentino, non cadde per caso. Non fu urtata da un veicolo. Non scivolò. Fu portata da qualcuno. Nadia, oggi lo sostengono con forza i consulenti della famiglia, fu vittima di un’aggressione brutale, conclusasi con un omicidio.

Il giallo di Nadia Chiariello: le nuove ipotesi e le analisi sul corpo

A rilanciare questa ipotesi, destinata a rovesciare la versione rimasta in piedi per oltre quattro decenni, è il medico legale, prof. Antonello Cirnelli, incaricato dai familiari della ragazza. L’avvocata Chiara Parolin e il criminologo Edoardo Genovese, per conto della famiglia, smentiscono dati alla mano la tesi dell’incidente. “Una caduta accidentale non può spiegare il quadro lesivo riscontrato durante la riesumazione”, affermano. Il loro medico legale ha riscontrato che fratture toraciche multiple, lesioni interne e un trauma cranico localizzato evidenziano l’azione di una forza esterna deliberata. Per approfondire, Cirnielli ha coinvolto il Dipartimento di Medicina Legale dell’Università di Ferrara, dove è stata elaborata una ricostruzione tomografica del cranio. L’esito: un impatto unico, violento, concentrato, compatibile con un colpo inferto volontariamente.

Nessun segno di caduta multipla, né rotolamenti, come previsto dalla tesi originaria. “Parliamo di ferite che richiedono una dinamica violenta – precisano i consulenti della parte lesa – come se il corpo fosse stato colpito con forza o addirittura lanciato. Non esistono, a oggi, elementi per sostenere la tesi dell’incidente.”

Nel 1979, il fascicolo venne chiuso in tempi stretti: morte accidentale. La giovane fu sepolta in silenzio. Ma la madre Iole, la sorella Barbara e pochi amici non si rassegnarono mai. Per decenni hanno ripetuto la stessa frase: “Nadia non è morta da sola.” Con il sostegno dell’associazione Penelope, la famiglia è riuscita nel 2021 a ottenere la riapertura dell’inchiesta. Lo scorso dicembre, la riesumazione della salma ha segnato il punto di svolta. È stata eseguita una TAC total body e avviati esami approfonditi, affidati dalla Procura di Vicenza al medico legale Giovanni Cecchetto, di Padova.

Ed è proprio sul piano medico-legale che oggi si gioca la partita decisiva. Il dottor Cecchetto, nominato dal pubblico ministero Giorgio Falcone, non propende per una tesi alternativa all’incidente stradale. Ma la relazione dei consulenti della famiglia, guidata dal professor Cirnelli, ribalta completamente quella visione. Per questo motivo, l’avvocata Parolin, ha chiesto l’incidente probatorio: un confronto tecnico formale tra le parti, per sottoporre le due ricostruzioni alla valutazione del giudice.

Non possiamo permettere che anche questa volta tutto finisca nel dubbio – afferma Parolin – Serve una verità chiara, certificata da un confronto serio, trasparente e anticipato, prima che la memoria si disperda del tutto.” Infatti, secondo Cirnelli, quella buca non era una sepoltura naturale, né un fosso dove scivolare per caso. “Qualcuno l’ha portata lì – ripete con forza la sorella Barbara – che era già morta o agonizzante.”

I nuovi elementi del caso riaperto

Tra i nuovi elementi c’è anche un file audio, registrato anni fa, in cui una persona farebbe riferimento a una lite violenta avvenuta nei giorni precedenti la scomparsa. Una confessione velata, forse dettata dalla paura. Gli inquirenti non lo confermano ufficialmente, ma potrebbe essere acquisito a breve. “Abbiamo fornito alla Procura della Repubblica materiale importante”, sottolinea Parolin.

Intanto, le indagini si concentrano su una relazione tossica che Nadia avrebbe vissuto nel periodo prima della sua morte. Un uomo più grande, forse un compagno o una figura di potere. La Procura, per ora, mantiene il massimo riserbo. Da quarantasei anni la famiglia ripete di “volere la verità”. La sorella Barbara, instancabile, è la voce pubblica della battaglia lunga quasi mezzo secolo. “Ci accusavano di non voler accettare la realtà – osserva -, ma ora la scienza ci dà ragione. Nadia fu picchiata. E chi l’ha fatto non può più sentirsi al sicuro.”

Anche la madre Iole, ultraottantenne, ha seguito la nuova indagine. Era presente alla riesumazione. Era presente alla consegna del referto. “Non ho paura della verità – afferma -. Ho paura solo del silenzio. Perché il silenzio uccide due volte.” Il marito è morto di crepacuore per avere perso la figlia in circostanze così misteriose a soli 17 anni.

L’avvocato Parolin e il criminologo Genovese, che in passato hanno lavorato a casi delicati, lanciano un appello alla magistratura: “Abbiamo il dovere di dare a questa ragazza la dignità della verità che non ha mai avuto in vita. E alla sua famiglia, finalmente, giustizia“. Il caso Chiarello, del resto, parla al Paese. Non è solo un cold case riesumato per ragioni tecniche. È il paradigma di una verità negata, di una giustizia che per troppo tempo ha archiviato il dolore delle donne come “fatalità”. È anche la prova che, se c’è coraggio e ostinazione, la verità può emergere anche a distanza di quasi mezzo secolo. Certo, non sarà facile, ma passi avanti in direzione della verità ne sono stati fatti. Oggi le ossa di Nadia, grazie alla scienza e all’amore di chi non l’ha mai dimenticata, raccontano una storia diversa. Parlano. E chiedono che si ascolti. Fino in fondo.


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