Le tariffe Usa spingono i Paesi di Medioriente e Nord Africa verso altri mercati
Meno aiuti e più rigore sulla bilancia commerciale: la mappa dei dazi promessi da Trump sulle esportazioni dai Paesi di Medio Oriente e Nord Africa (MENA) si preannuncia come un vero e proprio ripensamento del soft power della politica americana nella regione.
Meno di una settimana fa 14 Paesi arabi hanno ricevuto dall’amministrazione statunitense le indicazioni sui nuovi dazi che entreranno in vigore il 1 agosto, salvo eventuali contrattazioni. Mentre Paesi del Golfo, Egitto, Marocco, Libano e Turchia dovranno affrontare tariffe pari al 10%, i produttori di petrolio, Libia, Algeria e Iraq, vedranno la quota alzarsi al 30%. Una disparità che in questa partita commerciale vedrebbe vincitori alcuni Paesi a discapito di altri.
Tuttavia, l’Egitto è un esempio di come le cose stiano diversamente. Non solo perché Il Cairo esporta negli Stati Uniti 2,5 bilioni di dollari contro i 6,1 bilioni di prodotti importati. Ma soprattutto perché l’Egitto rischia il taglio degli aiuti economici e militari americani nel caso rifiuti il piano del presidente Trump per Gaza, che prevede l’evacuazione della popolazione palestinese nel suo territorio. Con un’ulteriore richiesta da parte dell’attuale amministrazione americana: il libero transito, privo di imposte, per tutte le navi commerciali e militari statunitensi in transito dal canale di Suez. E a nulla vale il sostegno del BRICS, il patto anti-dollaro di Cina, Russia, India, Brasile e Sud Africa, al quale l’Egitto ha aderito con tanto entusiasmo.
Il Cairo dipende soprattutto dagli investimenti del Fondo Monetario Internazionale e non può rischiare. Va quasi meglio all’Iraq, al quale verrebbero imposti dazi del 30%. Baghdad esporta negli Stati Uniti quasi esclusivamente greggio e petrolio, due beni che potrebbero non rientrare nella nuova politica dei dazi. Nel frattempo, però, mentre le tariffe sulle esportazioni fluttuano, il prezzo del petrolio al barile ha raggiunto il minimo storico degli ultimi quattro anni. Per Paesi come Siria e Iraq, schiacciati da una crisi economica endemica, significa dover affrontare l’instabilità politica con meno risorse. Il 22 aprile il Fondo Monetario Internazionale ha ribassato le previsioni per il tasso di crescita dei Paesi MENA dal 3,5% al 2,6%.
Ma l’instabilità interessa sempre meno gli Stati Uniti, ormai indipendenti dal punto di vista energetico. Va in questa direzione la decisione dell’amministrazione Trump di cancellare l’83% dei programmi dell’USAID, l’agenzia governativa statunitense che si occupa degli aiuti per lo sviluppo e l’assistenza umanitaria a livello internazionale. I Paesi più colpiti sono stati proprio Siria, Territori palestinesi, Yemen e Sudan. In assenza degli americani, i Paesi MENA iniziano a guardare altrove: non solo all’Europa e alla Cina, che ancora dipendono dal gas e dal petrolio della regione, ma anche agli Emirati Arabi Uniti.
La Siria del nuovo presidente Ahmed Al Sharaa ha appena firmato un contratto da 800 milioni di dollari con gli Emirati per la ricostruzione delle infrastrutture, in particolare del porto di Tartus sul Mediterraneo, ponte con l’Europa. Lo sviluppo dell’hub commerciale farebbe parte di un più ampio progetto per la creazione di una nuova zona di libero scambio tra Medio Oriente e vecchio continente, lontano da dazi e tariffe imposte. La Cina guarda con interesse allo sviluppo: gli scambi bilaterali con i Paesi MENA hanno raggiunto i 368 bilioni di dollari nel 2022, con una crescita del 30% di anno in anno. Per gli Stati Uniti, desiderosi di ridimensionare la presenza nella regione e le ormai tradizionali spese annesse, il rischio di vedere ridimensionata la propria presenza in Medio Oriente è calcolato, costi e benefici inclusi.
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