“Giudici di pace, tempi da incubo nei tribunali”: l’allarme di Vingiani
Giudici di pace, l’allarme di Vingiani. Il giudice di pace tra le criticità del presente e le necessità del futuro. Ne abbiamo parlato con Luigi Vingiani, Avvocato Cassazionista e Segretario Nazionale della Confederazione Giudici di pace, che lancia l’allarme sulle criticità negli uffici giudiziari, sulle carenze di organico dei giudici e sui tempi spesso biblici delle sentenze.
Segretario, andiamo subito al punto: ci sono troppi posti vacanti e un numero eccessivo di cause. Qual è oggi la situazione dei giudici di pace in Italia?
“La figura del giudice di pace, istituita con la legge 374/1991, ha sostituito il giudice conciliatore, diventando un punto di riferimento nella giustizia di prossimità. In origine, l’organico contava 4.690 unità distribuite su 845 sedi. Dopo la riforma della geografia giudiziaria del 2013-2014, gli uffici sono stati ridotti a 390, metà dei quali a carico dei Comuni. Attualmente, l’organico teorico prevede 3.476 giudici di pace, ma quelli effettivamente in servizio sono solo 947. Questo si traduce in una scopertura media del 73%, con punte del 95% a Torino, dell’85% a Bologna e Milano, e dell’82% a Napoli. Nel 2024, i procedimenti civili pendenti erano 886.347, con una media di 935 procedimenti per giudice. Una mole insostenibile per un organico così ridotto”.
Per quanto riguarda i tempi di attesa delle sentenze: è davvero così drammatica la situazione negli uffici dei giudici di pace?
“Assolutamente sì. Una scopertura così massiccia dell’organico non può che riflettersi negativamente sui tempi di definizione dei procedimenti. In alcuni casi, si arriva ad attendere oltre 5 anni per una sentenza. Emblematico il caso dell’ufficio di Busto Arsizio, dove solo 2 giudici si trovano a gestire oltre 10.000 procedimenti. In questa situazione, la prima udienza viene fissata addirittura al 2031. Considerando che una causa civile prevede almeno tre o quattro udienze, parliamo di tempi di attesa che possono superare i 20 anni. È una giustizia che, di fatto, nega sé stessa”.
Come Confederazione, quali soluzioni e proposte concrete avanzate per affrontare queste criticità?
“Le proposte istituzionali più recenti si sono dimostrate scollegate dalla realtà quotidiana degli uffici giudiziari. Ad esempio, l’idea di richiamare in servizio magistrati pensionati ultrasettantenni non tiene conto della loro motivazione e disponibilità, specie se chiamati ad operare lontano da casa. Serve ben altro: Copertura integrale dell’organico previsto, con un piano straordinario di reclutamento. Ripristino del cottimo o introduzione di incentivi economici legati al raggiungimento di obiettivi. Prolungamento volontario dell’attività fino a 75 anni, come già previsto per i giudici tributari. Integrazione dell’organico con magistrati onorari del Tribunale e con addetti all’Ufficio del processo. Trasferimento di risorse umane e materiali dai Tribunali agli Uffici del giudice di pace. Solo dopo aver consolidato questa rete sarà possibile pensare seriamente all’ampliamento delle competenze civili. Infine, è necessario promuovere misure alternative alla giurisdizione: arbitrato per le controversie commerciali, mediazione per i conflitti familiari, negoziazione assistita per le controversie lavorative. Il tutto accompagnato da incentivi concreti per le parti”.
Com’è il dialogo con il ministro della Giustizia, Carlo Nordio? Quali interventi chiedete con urgenza al Ministero?
“La riforma della magistratura onoraria (legge n. 51/2015) è stato un passo in avanti, ma non sufficiente. Ha stabilizzato i magistrati già in servizio, molti dei quali da oltre 20 anni in condizioni precarie, senza però riconoscere loro adeguatamente anzianità, indennità giudiziaria, copertura previdenziale pregressa. Il risultato è che molti di loro, alla fine dell’incarico, non avranno i requisiti minimi per la pensione. Nel frattempo, i magistrati onorari reclutati dopo la legge Orlando (n. 116/2017) sono obbligati a lavorare part-time, devono svolgere un’altra attività lavorativa, e sono soggetti a un incarico di massimo 8 anni, di cui solo 6 operativi. Oggi, il sistema si regge su appena 947 GDP stabilizzati, destinati a pensionarsi nei prossimi anni. Pensare di affidare oltre un milione e mezzo di procedimenti a 3.000 magistrati precari, part-time e sottopagati, è un grave errore di valutazione, sintomo di scarsa visione strategica”.
Parlando in termini più generali: qual è, secondo lei, lo stato di salute della giustizia italiana oggi?
“La giustizia italiana vive una crisi strutturale e cronica. Il giusto processo, sancito dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, impone che ogni processo si svolga in tempi ragionevoli e davanti a un giudice imparziale. Ma la realtà è ben diversa. Secondo la relazione del Presidente della Corte di Cassazione per il 2025, in Italia un procedimento civile dura in media 1.248 giorni. La media europea è di 239 giorni. Siamo al 45° posto su 46 tra i Paesi del Consiglio d’Europa, e al 160° su 185 secondo il rapporto Doing Business della Banca Mondiale per la risoluzione delle controversie commerciali. Fissare una prima udienza al 2031, come accade a Busto Arsizio, è incompatibile con i tempi della giustizia europea e con i diritti fondamentali delle persone. Serve una riforma pragmatica, tempestiva e sostenibile, non misure improvvisate ed estemporanee”.
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