La grande paura dei dazi: ci costeranno quasi un punto di Pil
L'analisi del Centro studi Confindustria, i timori di Ey: ecco le cifre
La grande paura dei dazi ha, dapprima, accelerato le vendite e gli affari. Quindi li ha depressi. E ora la “chiusura” del mercato americano può costare all’Italia fino allo 0,8% del Pil. Il Centro Studi di Confindustria continua, a getto continuo, a sfornare analisi, scenari confortati da numeri che tutto sono tranne che rassicuranti. Ma il problema è che, oltre ai dazi di Trump al 30%, c’è pure la questione dell’euro forte a non far dormire sonni tranquilli alle aziende italiane.
Dazi e industria, la paura di Confindustria
I dati da viale dell’Astronomia sono chiari. Le vendite delle aziende italiane negli Usa, tra aprile e maggio, hanno sostanzialmente retto segnando un aumento, seppur timido, dello 0,4%. Timido, già. Se paragonato a quello del primo trimestre di quest’anno quando, dei dazi, si parlava come di una possibilità per quanto imminente. Tra gennaio e marzo, per “anticipare l’entrata in vigore dei dazi”, gli affari delle imprese italiane in America hanno registrato un aumento favoloso: +11,8%. L’analisi del bimestre aprile-maggio, però, non è univoca. Nel senso che alcuni comparti, come la farmaceutica (che ancora non è sottoposta a tariffe ma che presto rischia di esserne gravata), hanno proseguito sull’onda favorevole del frontloading che ha caratterizzato la primissima parte del 2025. Tutte le imprese, o almeno la stragrande maggioranza (e cioè l’80%), sono concordi su una cosa: i volumi dell’export verso gli States sono destinati a comprimersi già dal secondo trimestre in poi. Più che paura, sui dazi c’è realismo.
Non solo tariffe: il pericolo euro forte
Giocare coi numeri non è un esercizio teorico ma, per gli analisti di Confindustria, l’occasione per comprendere le eventuali conseguenze dei dazi. Almeno di quelli fissati al 30%. Ebbene, per Csc, l’export italiano di beni negli Usa si ridurrebbe di circa 38 miliardi. Una cifra enorme che risulta pari al 58% delle vendite negli Usa, al 6 % dell’export totale e, considerando anche le connessioni indirette, al 4% della produzione manifatturiera. Se non è Caporetto, poco ci manca. Ma, come a Caporetto, i disastri sono figli sempre di più concause, non conseguenze di un’unica ragione. La grande paura che affligge gli analisti di viale dell’Astronomia, difatti, riguarda l’euro forte. Quello, per capirsi, che fa sognare Christine Lagarde e soci che vedono nell’indebolimento del dollaro a discapito (anche) della moneta comunitaria, un’occasione per rinverdire quel vecchio progetto di fare dell’euro una (vera) valuta internazionale di riserva. Un sogno che tale è destinato a rimanere. Ma che rischia di costare davvero tanto, troppo, agli imprenditori italiani e a quelli europei che, nel cambio attuale, si ritrovano praticamente a essere fuori mercato negli Usa. A favore, ça va sans dire, dei produttori locali. Quella che sembrava una reazione “punitiva” dei mercati contro le politiche doganali di Trump si sta rivelando l’arma più potente, forse addirittura più delle stesse tariffe, a sua disposizione.
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