Attualità

Sydney Sweeney, quando anche una battuta diventa ideologia

Bastano due vocali per scatenare l’apocalisse morale. Il caso Sweeney ci ricorda che nel 2025 nemmeno i pantaloni sono al sicuro dalla semiotica indignata

di Anna Tortora -


Nel meraviglioso mondo in cui viviamo, dove l’indignazione è più veloce della luce e la parola “problematica” ha più significati della Divina Commedia, anche un gioco di parole su un paio di jeans può scatenare l’apocalisse. Lo sa bene Sydney Sweeney, attrice diventata involontaria protagonista di una polemica che non ha nulla a che vedere con la moda, ma molto con la semantica esasperata e la sociologia fai-da-te. Lo slogan della campagna?

“Sydney Sweeney has great jeans”

Appunto “Sydney Sweeney has great jeans”. Ma attenzione, qualcuno ha letto o capito genes. E allora giù con le accuse: “Supremazia bianca!”, “Eugenetica!”, “Nazismo in denim!”. In poche ore, un doppio senso usato per vendere pantaloni è diventato un caso politico-culturale che manco un editoriale da prima pagina.

Il gene impazzito: quando la genetica diventa colpa

Il punto, dicono i critici, è che una donna bianca, bionda, occhi azzurri che viene celebrata per i suoi “geni” manda un messaggio “pericoloso”, “discriminatorio”, “escludente”. Insomma: basta dire che qualcuno ha “ottimi geni” per evocare il Reich. Non serve nemmeno la divisa.

Ma davvero siamo a questo punto? Davvero non possiamo nemmeno fare un gioco di parole senza dover compilare un modulo di autodifesa morale?
Perché se “jeans” suona troppo simile a “genes”, allora abbiamo un problema… con l’inglese.

La scenetta riparatrice: quando il marketing si pente con il pennello

Nel tentativo di spegnere la polemica, è arrivato un secondo spot: Sydney Sweeney dipinge sopra la parola “genes” su un cartellone, sostituendola con “jeans”. Gesto simbolico, sguardo colpevole, atmosfera da mea culpa visivo. Più che pubblicità, un rituale di purificazione da mandare in streaming su qualche piattaforma di auto-aiuto collettivo.

Secondo gli esperti (quelli che vengono chiamati ogni volta che la gente impazzisce per qualcosa che non ha detto), si è trattato di una “scelta performativa”, una soluzione visiva “vuota” che non affronta il nocciolo del problema.

Ma qual è, questo “nocciolo”?
Scusarsi di cosa?
Di essere nata in un certo modo? Di aver fatto una battuta che fa rima? Di indossare dei jeans e non un trattato postcoloniale cucito a mano?

La censura dell’ironia: ogni frase è una potenziale bomba

Il problema non è il marketing. È l’ambiente. È la cultura del sospetto. È questa nuova religione dell’interpretazione tossica, dove ogni parola viene vivisezionata, isolata, decontestualizzata, accusata. Dove se non ti scusi, sei colpevole, e se ti scusi… sei comunque colpevole, ma pure ridicolo.

Ogni giorno nasce una nuova crociata:

Uno spot con persone felici? “Positività tossica”.

Un biscotto chiamato “Leggero”? “Fat-shaming implicito”.

Un cartone animato con un personaggio che cambia abiti? “Commento transfobico passivo-aggressivo”.

Un gelato chiamato “Neve Bianca”? “Colonialismo dolciario”.

C’è poco da ridere, anzi no, c’è molto da ridere, ma ormai è vietato farlo.

L’evoluzione della comunicazione: da creatività a difesa legale

Nel mondo in cui viviamo, fare pubblicità non è più comunicare un messaggio, ma evitare una condanna pubblica. Ogni slogan deve passare attraverso filtri etici, linguistici, sociologici e geopolitici. Meglio se approvato da almeno un comitato interdisciplinare e da un influencer con la laurea in sensibilità percepita.

Sydney Sweeney, nel frattempo, è diventata simbolo involontario del cortocircuito culturale moderno. Pensava di promuovere dei pantaloni, si è trovata a spiegare al mondo perché non è una suprematista genetica.

Forse un jeans è solo un jeans

Noi, spettatori passivi di queste polemiche flash, dovremmo fermarci un attimo. Guardare il cartellone. Respirare. E magari dire una cosa rivoluzionaria:
“È solo pubblicità. È solo ironia. È solo un gioco di parole.”

Sydney Sweeney ha ottimi jeans. Punto.
Chi ci ha letto altro… forse ha bisogno di un po’ d’aria. E di un dizionario. Ma senza doppi sensi, per carità.


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