Attualità

La crisi salariale è un freno per la crescita

di Giuseppe Tiani -


Due giorni fa, sono stati sottoscritti accordi sindacali per i trienni 2018-2020 e 2021-2023, che interessano 24mila dirigenti delle Forze di polizia civili e militari, e delle Forze armate. La firma del primo contratto riservato ai dirigenti di polizia segue il rinnovo dei CCNL dei comparti sicurezza e difesa del 18 dicembre 2024, mitigando così gli effetti del cronico ritardo della politica dei redditi dei precedenti governi.

L’impegno dell’esecutivo è apprezzato, anche per il rispetto degli impegni assunti nel corso dei confronti tra Governo e sindacati di polizia come Siap e Anfp. L’inversione della tendenza delle congelate dinamiche salariali è un risultato significativo per il sindacato dei poliziotti, che si è assicurato la continuità degli incrementi stipendiali sino al 2030, dinamica che non ha precedenti nella storia repubblicana. Ma dai poliziotti ai professori il lavoro perde dignità, il Governo Meloni ha finanziato tre rinnovi contrattuali in due anni, ma gli stipendi non battono l’inflazione e il potere d’acquisto si è impoverito. Nonostante i contratti le retribuzioni restano al palo il divario accumulato è ampio, il caro vita, affitti e speculazioni divorano gli stipendi.

L’Italia è la coda d’Europa per le retribuzioni, dove un poliziotto non può permettersi più una casa e un professore se di ruolo deve dare lezioni private per arrivare a fine mese, se precario può permettersi al massimo un monolocale in periferia. I finanziati contratti per i trienni 2025-2027 e 2028-2030 hanno effetto, se le trattative sindacali saranno aperte allo scadere dei termini, garantendo così la continuità degli incrementi, ma ci sono rinnovi per il triennio 2022-2024 non ancora sottoscritti.

Diversamente, i settantacinque, o al massimo i centocinquanta euro netti al mese, l’inflazione li brucia prima che arrivino in busta paga, considerati gli affitti medi per un bilocale. Garantire sicurezza, istruzione e i servizi della pubblica amministrazione pare stia diventando un lusso che lo Stato non può più permettersi. Gli stipendi sono sotto la media dell’UE, il potere d’acquisto meno corposo di quello del 1990, i giovani laureati scappano dal comparto statale e il numero dei partecipanti ai concorsi nelle forze di polizia è in calo verticale. I lavoratori in uniforme, gli insegnanti e i pubblici dipendenti cuore della macchina pubblica, trattati per decenni come volontari, anche da chi condivisibilmente, vorrebbe più Stato per mitigare gli effetti del mercatismo privo di regole ed equa tassazione. I rinnovi contrattuali non risolvono mitigano, e va dato atto al Governo di aver invertito la tendenza, ma è necessario un legame strutturale tra stipendi, inflazione e costo reale della vita.

Il lavoro pubblico è il grande malato che la politica démodé ha trascurato, indebolendo l’autorevolezza delle pubbliche funzioni, come sicurezza, scuola, qualità ed efficienza di servizi e sanità. Il lavoro non sopravvive con bonus e mancette elettorali, va data dignità all’esercizio delle funzioni pubbliche, serve un salto di qualità e l’opposizione non può e non deve sottrarsi. Il Governo Meloni ha interrotto il digiuno contrattuale lasciato in eredità dai precedenti esecutivi, ma le retribuzioni vanno riformate e agganciate all’inflazione reale, diversamente trattasi di manutenzione salariale con sterili effetti per la vita reale. I nostri stipendi sono tra i più bassi d’Europa, e si continua a chiedere a poliziotti, militari, insegnanti e pubblici dipendenti dello Stato ed enti locali di essere pilastro del Paese, ma le paghe ti fanno vivere al limite del rosso. La questione salariale non è solo una vertenza sindacale ma di credibilità della politica, una parte della quale concentrata sui temi internazionali o della giustizia e ahimè, non si scorgono nuovi Tony Blair o Sergio Cofferati.

Misure tampone e piccoli correttivi non bastano più, la retribuzione dev’essere dignitosa, diversamente parlare di Stato autorevole e forte resterà uno slogan, e non la visione per un Paese efficiente ed equo. I contratti vanno rinnovati con puntualità e le politiche retributive ancorate alla media dei paesi più tradizionali dell’Europa, non al calcolo virtuale dell’inflazione, o la crisi salariale non sarà solo un freno alla crescita ma una faglia politica e sociale difficile da sanare.

L’Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato, che confronta l’inflazione tra i paesi dell’UE è inadeguato, perché è parte di un sistema più ampio degli indici dei prezzi al consumo elaborati dall’Istat, e non armonizza gli stipendi italiani alle retribuzioni degli Stati tradizionali dell’UE. Due velocità, lentissima per gli incrementi stipendiali, velocissima per inflazione, bolla immobiliare e speculazioni a danno di chi vive di stipendio e salario. Dulcis in fundo la Corte costituzionale il 28 luglio 2025, ha rimosso il tetto del limite massimo dei 240.000 € annui per il trattamento riservata ai grands commis di Stato e non certo ai poliziotti, professori e pubblici dipendenti, auspico che i Governi non né tengano conto.


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