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Sette storie di calciomercato: quando il pallone non era solo low-cost

Da Jeppson a Signori, da Pelé a Miura: alcune delle trattative e delle vicende che hanno scritto la storia del calciomercato

di Giovanni Vasso -

Hasse Jeppson con la maglia del Napoli, in una immagine tratta da Wikipedia.


Non è stato sempre così, il calciomercato italiano. Anzi. Adesso è tutta una depressione. I nomi non fanno girare la testa, gli affari potrebbero, al massimo, esaltare revisori dei conti e ragionieri. L’estate non è più la stagione dei sogni ma quella dei conti, tra eterne promesse low-cost in arrivo dal campionato francese e campioni “sicuri” ma un po’ attempati. Prima di ridursi a sperare che due fratelli indonesiani potessero portare a Como un vecchio (ma ancora validissimo) campione argentino, in Italia, il calciomercato era un affare di Stato. Di sicuro qualcosa in grado di muovere, oltre ai soldi e al tifo, anche le coscienze, le passioni. Una storia lunghissima costellata di momenti top e flop, di storie da romanzo, di vicende oscure, di proteste e di esaltazione. Eccone alcune.

Enrico Sardi e Aristodemo Santamaria al Genoa

La prima volta non si scorda mai. In realtà, in Italia, si fa presto a dimenticare. Ma furono loro a inaugurare il professionismo nel calcio. La storia s’innesta in una sorta di riedizione genovese di The English Game, la meravigliosa serie Netflix che ha raccontato la fine del calcio aristocratico delle origini e l’avvento delle squadre composte da chi iniziava a considerare il football un mestiere. La loro storia, risalente al 1913, è, inoltre, l’archetipo di buona parte delle storie di mercato. Sardi e Santamaria erano due stelline dell’Andrea Doria, antesignana della Sampdoria quando a Genova, e in Italia, non vigeva ancora il divieto di frazionare i tifosi delle città imposto dal fascismo nel tentativo di frenare la violenza negli stadi. La leggenda vuole che si recarono in banca a cambiare un favoloso assegno da 3mila lire firmato dal signor Geo Davidson, presidente degli odiati rivali del Genoa che vinceva, a quei tempi, scudetti a ripetizione. Furono, però, riconosciuti dall’impiegato, che teneva alla Doria, e che denunciò il “tradimento” in pubblica piazza. L’affare saltò, le norme all’epoca non prevedevano la possibilità di guadagnar quattrini col calcio. Ma da lì è iniziata una storia lunghissima che ha attraversato tutta la storia recente del Paese.

Hasse Jeppson al Napoli

Negli anni ’50 il calcio parlava svedese. Al Milan c’era la devastante Gre-No-Li, il trio d’attacco che macinava gol e vittorie guidato da Gunnar Gren, Gunnar Nordahl e Nils Liedholm. Da lì a qualche anno approderà in Italia Kurt Hamrin, ala talentuosissima che farà le fortune della Juventus. Il calcio, a quel tempo, non è più solo un affare del Nord. Vero, è ancora in competizione con il ciclismo nei cuori degli italiani divisi tra Bartali e Coppi ma la passione sta iniziando a infiammare tutte le città. Anche Napoli. Il club fondato da Giorgio Ascarelli non è mai stato solo una questione sportiva. In quegli anni era (anche) politica. Il nome Achille Lauro, a quell’epoca, non evocava né una nave tantomeno un cantante. Era ‘o comandante, padre padrone dell’ultimo baluardo monarchico d’Italia (sì, i neoborbonici erano ancora di là da venire), decide di accontentare il “suo” popolo e di regalargli Hasse Jeppson. Un attaccante completo e prolifico, stella del Djurgarden portato in Italia dall’Atalanta. Mette sul tavolo 105 milioni del 1952. Soldi, soldi, soldi. I tifosi subito lo ribattezzarono “Banco ‘e Napule”. Un investimento così imponente fece insorgere speranze ancor più grandi. Ma lo scudetto, in quattro anni (fino al 1956) non arrivò mai. Una delle prime (grosse) illusioni del calciomercato.

Pelé all’Inter

L’affare non si concluse mai. La leggenda ci ha ricamato su per anni. Dice che fu colpa della Democrazia Cristiana, perché chiuse le frontiere delusa dalle scialbe prestazioni della Nazionale. Dice che chissà che interessi loschi e mire aristocratiche frenarono l’intesa. Politica e interessi industriali insieme per tarpare le ali a una squadra che voleva essere grande. Chiacchiere. Tante chiacchiere per quella che, per anni, è stata creduta una fake news. Poi, nel 2022, Massimo Moratti decise di aprire il cascione dei ricordi e di regalare la verità su uno dei misteri (calcistici) d’Italia: sì, è vero. Pelé era a un passo dal vestire la maglia nerazzurra nella stagione 1958-59. E sì, è altrettanto vero che l’affare si era concluso durante il tour europeo del Santos che toccò, tra le altre, anche Milano. Il contratto c’era, tutto pronto. Ma suo papà Angelo, a un certo punto, fu preso da un caso di coscienza. Il presidente del Santos, infatti, lo avrebbe scongiurato di stracciare l’intesa. La notizia, in Sudamerica, s’era già diffusa e le strade erano già piene di tifosi pronti a tutto. Temeva per la propria pelle. Moratti senior lo esaudì. Pelé non arrivò mai a Milano né giocò mai in Italia. Si chiusero, poi, le frontiere. E la storia del calcio italiano, pure quella del calciomercato, proseguì per un’altra strada.

Beppe Savoldi al Napoli

Ancora Napoli, ancora una volta il sogno dello Scudetto. Era sfumato, l’anno prima. Colpa di quel testone e core ‘ngrato di José Altafini, già idolo delle folle napoletane, passato alla Juventus che segnò quel gol decisivo che frustrò la stupenda ricorsa degli azzurri all’epoca allenati da ‘o Lione Vinicio. Dopo anni di pane duro, di illusioni infrante, gli azzurri provano l’assalto al cielo e si svenano sul calciomercato per acquistare il bomber del Bologna, Beppe Savoldi. Un uomo da due miliardi di lire (del 1975). Un affare clamoroso che rimbomba in ogni angolo d’Europa. E che aggiornò i “prezzi” del pallone e dei calciatori portando le quotazioni dei più forti alle stelle. Con Savoldi, però, nemmeno stavolta il Napoli riuscì a mettere le mani sul campionato. Dovrà aspettare ancora, quando con un altro colpo di mano (e grazie a un nuovo esborso record, 14 miliardi del 1984), l’ingegner Corrado Ferlaino porterà in città Diego Armando Maradona. Ma questa è un’altra storia.

Luis Silvio alla Pistoiese

La sua storia è talmente nota che riassumerla è quasi un esercizio di stile. Fu acquistato in Brasile, la leggenda vuole all’esito di una partita truccata per gabbare i dirigenti della Pistoiese neopromossa in A (in cui giocava, tra gli altri, un esperto difensore di nome Marcello Lippi). Altri dicono che fu l’equivoco linguistico: disse di sé, Luis Silvio, di essere una “ponta”. Una parola che strizza l’occhio all’italiano ma che in inglese si chiamerebbe “false friend”. Ponta, difatti, sta per ala, non per attaccante. La sua stagione italiana fu un disastro. Luis Silvio ispirò centinaia di leggende postume che tentavano di rispondere alla domanda “che fine ha fatto?”. Fu il primo bidone vero all’epoca della riapertura delle frontiere, all’inizio degli anni ’80. Il simbolo stesso della sòla (e saranno tante) in agguato a ogni sessione di calciomercato. Ecco perché la sua storia divenne leggenda.

Kazuyoshi Miura al Genoa

Oliver Hutton ha giocato in Italia. Sì, lo sappiamo fin troppo bene. In realtà si chiama Tsubasa Ozora e, semmai, ha giocato nel Barcellona mentre in Italia, alla Juve che lo girò in prestito alla Reggiana, è arrivato Mark Lenders, pardon Kojiro Hyuga. Il “vero” Hutton però è stato il calciatore giapponese Kazuyoshi Miura. Il pioniere del football nipponico in Italia. Con un colpo di genio (del marketing più che del calciomercato), nel 1994, il Genoa allora presieduto da Aldo Spinelli, lo porta in Italia. Più che attese per un attaccante rapido e tecnico, che si era formato in Brasile al Santos, in quello che era (ancora) il campionato più bello del mondo lo si guardava con un misto di curiosità e supponenza. A Marassi, invece, gli spalti erano gremiti. Sì, ma di turisti asiatici armati di immancabile macchinetta fotografica. L’esperienza di Miura in Italia durò una sola stagione: 21 presenze (anche grazie agli sponsor giapponesi che pagavano per vederlo in campo) e una rete sola (siglata il 4 dicembre ’94 nel derby contro la Sampdoria che, all’epoca, era ancora una potenza della A). Si concluse con una mesta retrocessione. Oggi re Kazu, sorprendentemente, gioca ancora. All’Atletico Suzuka, nelle serie minori giapponesi. Da Holly, s’è trasformato in un Highlander del calcio.

Beppe Signori al Parma

L’estate del 1995 è stata indimenticabile per i tifosi della Lazio. Nel torpore della tarda primavera, i giornali sportivi iniziano a minacciare titoloni: Signori al Parma. Il capocannoniere, l’uomo che col suo sinistro dipingeva tuoni, fulmini e saette, sta per lasciare i biancocelesti. Lo vuole il Parma, rampantissimo, di Callisto Tanzi che ne ha chiesto il cartellino a Sergio Cragnotti. Tanzi e Cragnotti, Cirio e Parmalat. Il tramonto dei due imperi è di là da venire.  Cragnotti, a un certo punto, conferma le voci: tutto vero, Signori è stato ceduto per 25 miliardi di lire. Fino all’11 giugno nessuno ne sapeva nulla, nemmeno il calciatore che si trovava coi compagni in una tournée sudamericana. Neanche Dino Zoff, all’epoca presidente della Lazio. La gente scende in piazza. La rivolta si sposta sotto la sede del club. Tangentopoli non è ancora del tutto superata e la moda di tirare monetine torna a farsi viva. Insieme agli spiccioli, piovono sulla testa del patron anche i “suoi” pomodori Cirio. C’è gente che fa incetta di prodotti Parmalat per il solo gusto di rompere tutto a favor di telecamere. Saranno, alla fine della giornata, in quattromila a unirsi al corteo per trattenere Signori. Che, intanto, fa sapere di “trovarsi bene a Roma”. A togliere le castagne dal fuoco, come sempre, tocca al solito Dino Zoff. Che, dopo un summit di due ore con Cragnotti e Cesare Geronzi (ricordate Banca di Roma?) annuncia che il bomber non è più sul mercato. Il calciomercato può continuare. E, una volta tanto, può incappare in una sconfitta.


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