Cultura & Spettacolo

Pierre Alexis 1877: la cucina del bosco ai piedi del Monte Bianco

di Nicola Santini -


A pranzo da Pierre Alexis 1877

Courmayeur in estate non è solo sentieri, terrazze panoramiche e selfie con il Monte Bianco sullo sfondo. È anche il momento in cui certi luoghi riescono a dire molto di più di quello che servono in tavola. Pierre Alexis 1877 è uno di quei posti. Non lo trovi per caso: ci arrivi perché qualcuno te ne ha parlato come di un’esperienza che vale il viaggio, e quando ti siedi capisci subito che non si tratta di un ristorante qualsiasi.

Lo chef Stefano Alessandro Marchetto la chiama “cucina del bosco” e, per una volta, non è un vezzo da comunicato stampa. Qui il bosco c’è davvero: nelle erbe che raccoglie personalmente tra Val Ferret e La Salle, nelle cortecce e nei licheni che finiscono nei dessert, nel pino mugo che profuma la ganache al cacao, nelle infusioni che ti arrivano al tavolo con la stessa naturalezza con cui altrove ti servirebbero un caffè. Si comincia dal dehors, un angolo riparato e appartato che odora di legno e resina.

Perfetto per il nuovo menù pranzo, pensato per chi tra una passeggiata e una pausa sole non rinuncia a un piatto che sappia farsi ricordare: tartare di vitello con caprino e acqua di pomodoro, o quella di salmerino con kefir e olio al levistico, seguite da tubetti con pomodoro fresco e datterini confit o spaghetti alla verbena e artemisia. Pochi elementi, nessun vezzo inutile, e una precisione che non concede margini di distrazione.

Pierre Alexis 1877, i percorsi degustazione

Poi arrivano i percorsi degustazione, che qui sono tre e non si assomigliano affatto. Essenza è un inno al vegetale alpino, cappellacci alla borragine e sedano rapa fondente con gelato alla Granny Smith e maionese al levistico. Evoluzione gioca a scomporre e ricomporre il vitello in tutte le sue forme, dal sottofiletto panato nel burro alla spalla sfilacciata, fino all’animella, con insalata raccolta la mattina stessa. Selvaggio è per chi ha voglia di osare: spiedo di anguilla e coniglio alla brace con silene e umeboshi, cervo con fondo alla corteccia di larice e polveri vegetali, piccione con sorbo, sambuco e pera fermentata in tre servizi.

I dessert non sono un ripiego, ma il proseguimento logico di un racconto aromatico che non si ferma mai. La pera in osmosi alla verbena con sorbetto al mirtillo e mandorla è pura eleganza, mentre il tronco al cacao con pino mugo, lichene e melata di abete sembra uscito da un laboratorio di botanica applicata alla pasticceria. Gelati e sorbetti artigianali in dieci varianti, usati anche nei piatti salati, chiudono il cerchio. Tutto parte dalla materia prima: farine di un piccolo mulino locale, burro d’alpeggio della Val d’Ayas servito montato con pane a lievitazione naturale e pane nero ai cinque cereali, carni acquistate intere e lavorate in cucina per insegnare ai giovani cuochi a riconoscere i tagli, erbe raccolte direttamente nei boschi.

Non è folklore, è metodo, e lo vedi nei dettagli: padelle in ferro lyonnaise, rigore tecnico. In sala, Monica Robaldo ti accoglie con garbo e senza fronzoli, la cantina di Egon Marchetto è una passeggiata tra terroir di montagna, vitigni autoctoni e piccole produzioni biodinamiche dal Piemonte alla Borgogna. Liam e Nicholas, anche sous-chef, completano il quadro. Una famiglia al lavoro, ognuno con un ruolo preciso, parte di un ingranaggio che gira alla perfezione.


Torna alle notizie in home