Sangue donato: un percorso legittimo ma non privo di ombre
In Italia la donazione di sangue e plasma è un atto volontario, anonimo e gratuito, sancito per legge e riconosciuto a livello internazionale come modello etico. Ogni anno oltre tre milioni di donazioni garantiscono cure a centinaia di migliaia di pazienti: globuli rossi per le emergenze, piastrine per i malati oncologici, plasma come materia prima indispensabile per la produzione di farmaci salvavita. Il donatore non riceve nulla in cambio se non i controlli sanitari e la soddisfazione morale di un gesto altruistico, e questo è il fondamento del sistema italiano: il sangue è un bene pubblico, non una merce.
Eppure il percorso non si ferma lì. Il plasma, che costituisce oltre la metà del volume del sangue, non viene utilizzato solo per le trasfusioni dirette, ma in larga misura viene inviato all’industria farmaceutica per il cosiddetto frazionamento industriale. In laboratori complessi e ad alta tecnologia, le proteine plasmatiche vengono trasformate in farmaci essenziali come albumina, immunoglobuline e fattori della coagulazione. Nel 2024 l’Italia ha raccolto quasi novecentosette tonnellate di plasma destinate all’industria: una quantità enorme che, tradotta in valore economico, corrisponde a circa trecento milioni di euro all’anno che il Servizio Sanitario Nazionale spende per garantire ai pazienti italiani i derivati plasmatici.
Chi spende e chi guadagna? La dinamica è chiara: i cittadini donano gratuitamente; lo Stato, attraverso il SSN e le Regioni, paga le aziende private; le industrie – fra cui Kedrion Biopharma, Grifols e Takeda – ricevono il plasma senza alcun costo di materia prima e incassano i pagamenti pubblici per il servizio di trasformazione industriale e la consegna del farmaco finito. In altre parole, il denaro pubblico finanzia un processo industriale che monetizza un bene nato da un atto altruistico. I 300 milioni di euro escono dalle casse pubbliche e finiscono nelle mani di aziende private multinazionali, che hanno dunque un interesse diretto a mantenere e ampliare questo circuito.
La proporzione è netta: circa il 67% del peso complessivo del sangue donato è stato destinato all’industria farmaceutica sotto forma di plasma per la produzione di farmaci, mentre solo il 33% è stato impiegato in trasfusioni dirette o altri usi clinici immediati. Numeri che mostrano come, oggi, il dono altruista dei cittadini alimenti soprattutto il circuito industriale.
Il percorso è legittimo e regolato: i contratti sono pubblici, le gare formalizzate, la tracciabilità del plasma è totale dall’origine al prodotto finale. Tuttavia emergono punti critici. L’Italia, nonostante i progressi, non è ancora autosufficiente: circa il venti-venticinque per cento del fabbisogno, in particolare di immunoglobuline, viene importato dall’estero con costi aggiuntivi e vulnerabilità alle crisi internazionali. Le multinazionali del plasma hanno un potere contrattuale notevole perché i loro prodotti sono salvavita, e ciò può tradursi in pressioni sulle scelte politiche e sugli investimenti pubblici. Il valore del dono, raccolto gratuitamente, si trasforma interamente in ricavi industriali e questo pone una questione etica: il cittadino che dona è davvero consapevole che il suo gesto entra in un circuito economico miliardario? Infine, la gestione a livello regionale moltiplica i centri decisionali, aprendo la strada a possibili aree di opacità negli appalti.
Parlare di corruzione diretta è eccessivo, perché il sistema è strutturato per garantire tracciabilità e trasparenza. Ma esiste un rischio più sottile, quello della cattura politica: ovvero la possibilità che decisioni strategiche — su quali industrie coinvolgere, se costruire impianti nazionali, se puntare sull’autosufficienza — vengano orientate non solo dal bene pubblico, ma anche da pressioni economiche e da lobby. Il punto fragile non è il donatore, né il medico, ma la fase in cui industria, politica e Regioni si incontrano per decidere contratti da centinaia di milioni di euro.
Quali soluzioni? Rafforzare la legittimità e la trasparenza del sistema è possibile. Aumentare le donazioni di plasma per raggiungere gli obiettivi di autosufficienza nazionale ridurrebbe la dipendenza dal mercato estero. Investire in un impianto pubblico di frazionamento permetterebbe di trattenere più valore economico in Italia, restituendo ai cittadini parte del beneficio del loro dono. Una maggiore comunicazione ai donatori chiarirebbe come viene usato il plasma e quali interessi muove, alimentando fiducia e consapevolezza. Infine, la trasparenza totale sugli appalti, con dati aperti e pubblici, toglierebbe opacità al percorso economico.
Il sistema italiano del sangue resta uno dei più etici e solidi al mondo, perché fondato sul dono gratuito. Ma il passaggio dal dono al farmaco introduce attori privati e flussi di denaro che meritano attenzione. Legittimo? Sì. Trasparente? Non sempre. Sicuro? Solo se si investe in autosufficienza e in controllo pubblico. Il sangue rimane dono di vita, ma il plasma è anche materia strategica. L’Italia dovrà decidere se continuare a dipendere dall’industria privata o se costruire una filiera più pubblica, capace di restituire ai cittadini tutto il valore del loro gesto altruista.
di ULISSE
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