Economia

Italia senza competenze e le imprese ora si fermano

di Giovanni Vasso -


L’Italia del tech e della decarbonizzazione possono fermarsi perché, qui, non ci sono abbastanza competenze a cui attingere e sempre più imprese sono costrette a fermare i progetti di ricerca. L’allarme arriva direttamente da Anie-Confindustria, l’organizzazione che riunisce le aziende italiane impegnate nel campo tecnologico. Il rapporto, e soprattutto i numeri che contiene, restituiscono, anzi confermano, la fotografia di un Paese in cui l’offerta di lavoro c’è ma mancano specialisti e professionisti in grado di rispondere alle esigenze del sistema produttivo nazionale.

Competenze cercarsi: imprese disperate

Lo studio, realizzato da The European House-Ambrosetti insieme proprio ad Anie-Confindustria e con il contributo del Research Department di Intesa Sanpaolo, riferisce che il quadro italiano è a dir poco desolante. Servono competenze per affrontare la doppia transizione, quella green e quella digitale. Di fronte a questa sfida (che vale fino a 18,5 milioni di nuovi posti di lavoro in tutto il mondo) risulta che nemmeno un italiano su due possiede le skill digitali di base: solo il 49 per cento. Un dato desolante se paragonato alla media Ocse del 71 per cento. Ma i problemi sono (anche) nei percorsi formativi e universitari. Nel senso che restano pochi, troppo pochi, i giovani che decidono di studiare le materie Stem. La media italiana è bassa, troppo bassa, rispetto a quelle dei partner. Nel nostro Paese, infatti, per ogni mille laureati tra i 20 e i 29 anni ci sono solo 18,5 studenti che abbiano completato un ciclo di studi nelle discipline scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche o matematiche. Pochini. La Francia, per esempio, vanta un tasso di laureati Stem pari al 35,5 meglio ancora fa l’Irlanda: 40,1%. La media Ue sfiora il 20% (19,9%).

Mismatch, quanto ci costi

Le conseguenze sono fin troppo facilmente intuibili. E si possono rintracciare in un’indagine del Servizio Studi Anie insieme a Teha Group. Il 75% delle imprese ha segnalato una carenza significativa di competenze tecniche e specialistiche, in particolare per tecnici e operai specializzati, che nel 2023 hanno rappresentato l’85% delle nuove assunzioni previste. Più li cercano, in pratica, e meno li trovano. Ma non basta. A causa della mancanza di profili adatti, il 69 per cento delle imprese s’è vista costretta a sospendere (o nella migliore delle ipotesi a rallentare) alcuni progetti di ricerca e sviluppo strategici. Un problema che è diventato, se possibile, ancora più serio per il 29 per cento delle industrie coinvolte nello studio (quasi una su tre) che ha ammesso di aver perso delle importanti opportunità di mercato proprio a causa della mancanza di talenti e competenze da inserire nei ranghi della propria azienda. Il guaio, però, non è solo trovarli. È pure trattenerli. Già, perché per il 64 per cento delle imprese italiane far restare in azienda i migliori talenti continua a essere un problema che peggiora di giorno in giorno. E che, in prospettiva, potrebbe rivelarsi ancora peggiore dal momento che l’inverno demografico non sembra offrire rassicurazioni affidabili agli imprenditori. Che, nonostante l’Ai e il fatto che una sua adozione diffusa varrebbe a liberare fino a 5,7 miliardi di giornate di lavoro, vedono un futuro nerissimo.

Che fare?

La domanda, quindi, è sempre la stessa: che fare? Per risolvere l’annoso problema del mismatch che, adesso, minaccia la competitività del Paese, Anie avanza l’idea di attuare un piano d’azione in più livelli. Le priorità rilevate riguardano la necessità di valorizzare le professioni tecniche e industriali con campagne nazionali rivolte a studenti, famiglie e docenti, di promuovere percorsi formativi integrati (ITS, IFTS, università) centrati sulle tecnologie abilitanti le transizioni green e digitale; di attivare tavoli di confronto multistakeholder per definire standard formativi professionali aggiornati. C’è, poi, da investire (e molto) nella formazione di chi già lavora: upskilling e reskilling, in salita e discesa di tutte le catene del lavoro con un’attenzione particolare alle esigenze delle pmi. Infine c’è la chance dell’estero. Più che pescare altrove (non avrebbe nemmeno senso in un Paese da cui i talenti fuggono appena ne hanno la possibilità), l’indicazione è quella di allestire hub di formazione internazionali e intese solide tra aziende, grandi e piccole, per potenziare le capacità di ognuno.


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