La voce di Gaza: le mani sul Leone
Pubblico e critica il nome del Leone d’Oro ce l’hanno già. Il Lido sa trasformarsi nello specchio del mondo. Non è più soltanto la passerella del cinema d’autore, ma un’arena politica dove la coscienza collettiva trova voce. È accaduto con la giornata di Hind Rajab, il docufilm che ha commosso la Mostra del Cinema di Venezia e che, dopo venti minuti di applausi, entra di diritto nella rosa dei favoriti al Leone d’Oro. Se non il principale favorito. La voce della bimba palestinese che un po’ alla volta muore è un pugno allo stomaco dello spettatore che conta nell’immaginario collettivo più di tante marce di protesta contro Israele. Non è un’opera di finzione, non possiede i codici estetici dei grandi film da concorso, eppure si è imposto con la forza di un grido. La voce vera della bambina, registrata poco prima di morire a Gaza, è diventata il simbolo di un dolore universale che travalica il conflitto mediorientale e tocca il cuore degli spettatori. È raro che un festival, abituato a misurare la qualità formale, si trovi davanti a un’opera che mette in secondo piano la recitazione e la costruzione narrativa per trasformarsi in documento politico. Ma la storia di Hind ha fatto saltare gli schemi: non è più solo cinema, è testimonianza. Il paragone inevitabile è con Fahrenheit 9/11 di Michael Moore, che vent’anni fa infiammò Cannes portando in trionfo il cinema politico. Qui, a Venezia, si respira la stessa aria: quella di un film che non si limita a raccontare, ma si fa atto di denuncia, manifesto civile. In sala non c’erano divisioni tra critica italiana e internazionale: la reazione è stata compatta, segno che l’opera ha toccato corde profonde, al di là di ogni schieramento. Ma il Leone d’Oro, si sa, non è mai solo questione di emozioni. È anche un premio che deve misurare la forza artistica, la scrittura registica, la capacità di incidere nella storia del cinema. E qui il campo si fa più complesso. Paolo Sorrentino, con La Grazia, ha portato a Venezia un film maturo, ancora una volta sostenuto dall’interpretazione di Toni Servillo: un’opera che intreccia intimo e politico, fede e potere, e che ha raccolto consensi ampi. Accanto a lui, si fa strada Il mago del Cremlino, tratto dal romanzo di Giuliano da Empoli, che mette in scena l’ascesa e il potere di Vladimir Putin. In un festival che ha fatto della risonanza civile un punto di forza, la sua presenza pesa. Non mancano altri outsider di peso: No Other Choice del coreano Park Chan-wook, con il suo rigore stilistico, e Bugonia di Yorgos Lanthimos, che ha diviso ma anche intrigato per la capacità di reinventare l’allegoria politica. Eppure, dopo la serata di Hind Rajab, gli equilibri sono cambiati. Il docufilm non è forse il candidato più ortodosso al Leone d’Oro, ma a Venezia la storia insegna che la giuria può sorprendere. La potenza politica di quest’opera, la sua capacità di condensare in pochi minuti la tragedia di un popolo, pesa quanto e più della perfezione formale. Chi vincerà? Se la giuria sceglierà la qualità estetica, i favoriti restano Sorrentino e gli autori più consolidati. Ma se opterà per la testimonianza civile, allora la voce di Hind ha già conquistato un posto che va oltre il festival. È l’opera che più di tutte, oggi, incarna il potere del cinema di farsi voce del mondo.
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