ONU: la paralisi delle decisioni nel conflitto Medio-Orientale
Nel 1945, quando i delegati delle potenze vincitrici si riunirono per fondare le Nazioni Unite, avevano in mente un sistema che avrebbe dovuto impedire la possibilità di una nuova guerra mondiale. Il Consiglio di Sicurezza doveva essere il cuore pulsante e la mente ferma di questo nuovo ordine, ma al tempo stesso doveva essere necessariamente capace di intervenire – rapidamente – nelle crisi internazionali. Ottant’anni dopo, quello stesso sistema sembra più un freno che un vero e proprio motore per la pace mondiale. Un’idea nata bene, tra i migliori auspici ed intenti, ma invecchiata male. Il diritto di veto dei cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Cina) non nasceva da un senso di onnipotenza, ma da un sensato realismo politico. L’idea era semplice: meglio tenere le superpotenze dentro il sistema – anche se talvolta lo ha paralizzato -, piuttosto che vederle creare organizzazioni alternative. La realtà è stata ben diversa da quanto inizialmente auspicato. Oggi abbiamo un paradosso: per cambiare le regole del gioco servono tutti e cinque i consensi di chi, da quelle regole, trae il massimo vantaggio. Prendendo soprattutto in considerazione il Medio Oriente – nel conflitto israelo-palestinese -, dove la paralisi e la mobilità di chi ha potere decisionale diventa attesa e quindi tragedia e la “disfunzione” del sistema ONU emerge in tutta la sua inefficienza. Dal 1972 gli Stati Uniti hanno bloccato più di quaranta risoluzioni su Israele – più veti su un singolo conflitto di qualsiasi altro Paese nella storia delle Nazioni Unite – ed è importante sottolineare che non si tratta necessariamente di giudizi sul merito delle singole questioni, ma è pura strategia: Washington ha scelto da che parte stare e non ci sono dibattiti che tengano. La Russia, dal canto suo, usa spesso il veto come strumento di disturbo più che per convinzioni specifiche sul Medio Oriente. Mosca infatti blocca le iniziative occidentali per presa di posizione trasformando, ogni crisi regionale, in un “round” del più ampio scontro geopolitico globale. Il risultato è quello che stiamo vivendo in questo triste momento storico. Quando nell’ottobre 2023 è esplosa l’ultima escalation, il Consiglio di Sicurezza si è ritrovato completamente fermo, mostrando tutta la propria vulnerabilità. Mentre le immagini di morte e distruzione facevano il giro del mondo, l’organismo che avrebbe dovuto garantire la pace mondiale discuteva di etimologie linguistiche in risoluzioni destinate comunque all’inattuazione. Ogni volta che l’ONU “fallisce” di fronte ad una crisi umanitaria – come nel conflitto in Medio Oriente -, perde di credibilità davanti agli occhi dell’opinione pubblica e a livello globale. Le tragedie trasmesse in TV e sui social alimentano in particolare una domanda: “Ma a cosa serve questa organizzazione se non riesce mai a fermare le guerre?” È un circolo vizioso distruttivo. Meno credibilità significa meno cooperazione, che a sua volta sta ad indicare meno capacità di azione e di conseguenza, meno credibilità. Ma nel frattempo i conflitti continuano. Tuttavia non tutto è perduto. Esistono infatti alcuni meccanismi per aggirare il blocco del Consiglio. L’iniziativa “Uniting for Peace” permette all’Assemblea Generale di subentrare quando il Consiglio è fermo. Non ha la stessa forza vincolante, ma almeno consente alla comunità internazionale di esprimere una posizione ben definita. Poi c’è tutta la diplomazia all’opera lontano dai riflettori, attraverso i canali informali, le mediazioni regionali e l’impegno di associazioni non governative. Spesso le vere soluzioni nascono proprio qui; non nelle sale ovattate, protette e sicure del Palazzo di vetro. Il sistema andrebbe cambiato. India, Brasile, Germania e Giappone hanno – legittime – aspirazioni a entrare nel Consiglio. L’Africa, che rappresenta un quarto dei paesi ONU, non ha neanche un membro permanente. Ma chi dovrebbe approvare questi cambiamenti? Forse proprio chi potrebbe perdere più di qualcosa. Nel caso specifico del Medio Oriente, questa fermezza istituzionale finisce per prolungare sofferenze che potrebbero essere alleviate da un’azione internazionale più rapida ed efficace. Il cambiamento arriverà – speriamo -. Ciò che sta avvenendo potrebbe essere una crisi di credibilità così profonda e dolorosa da rendere inevitabile una riforma. Nel frattempo continuiamo a convivere con un Consiglio di Sicurezza che riflette il mondo del 1945, mentre cerca di governare quello del 2025 senza prendere in considerazioni le reali necessità. Con tutti i paradossi, i cambiamenti, ma soprattutto le tragedie che ne conseguono. La pace in Medio Oriente (come altrove) ha bisogno di strumenti diplomatici all’altezza dei tempi. E questi strumenti, al momento, non sembrano essere all’altezza delle richieste.
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