Il grido forte della cultura contro i massacri
Il mondo della cultura ha sempre avuto un riflesso rapido e a volte viscerale di fronte ai grandi eventi che scuotono la coscienza collettiva. È accaduto con l’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, quando artisti, scrittori e intellettuali russi si sono trovati sul banco degli imputati. Pur senza colpe personali, molti di loro hanno dovuto pagare il prezzo della vicinanza al regime che aveva scelto la guerra. Teatri e festival occidentali hanno annullato concerti, cancellato collaborazioni, sospeso mostre. Nel mirino sono finiti direttori d’orchestra, romanzieri, registi, come se la responsabilità del Cremlino fosse trasferibile a chiunque parlasse la lingua di Tolstoj o di Ciaikovskij. Oggi lo scenario si ripete, con altre coordinate ma con la stessa forza simbolica. L’offensiva militare israeliana a Gaza, guidata dal governo di Bibi Netanyahu, ha prodotto un’onda lunga di indignazione per i massacri delle vittime civili: immagini che scuotono l’opinione pubblica e che trovano nella cultura il canale più immediato di elaborazione e protesta. Alla Mostra del Cinema di Venezia, il più prestigioso appuntamento mondiale per il cinema d’autore, le manifestazioni non sono mancate. Striscioni, prese di posizione, dichiarazioni. Ma soprattutto un film, The Voice of Hind Rajab, che con la sua forza testimoniale ha conquistato il Leone d’argento, trasformandosi in un atto politico prima ancora che artistico.
Il parallelo con l’Ucraina è evidente: anche in questo caso il mondo della cultura diventa specchio e megafono di un conflitto, capace di amplificare la sofferenza delle vittime e di indicare colpevoli e responsabilità. Allora era Putin con il suo esercito, oggi è Netanyahu con le sue scelte militari. L’arte non resta indifferente. Anzi, trova nella denuncia una ragione nuova di esistenza. Il teatro, il cinema, la letteratura, la musica: ogni ambito si muove in questa direzione. Così come nel 2022 attori e registi ucraini vennero accolti nei festival europei come simboli di resistenza, oggi le voci palestinesi trovano spazio e visibilità. La loro testimonianza diventa patrimonio comune, memoria condivisa. E allo stesso tempo cresce l’isolamento degli artisti israeliani, spesso costretti a prendere posizione pubblica contro il proprio governo per non vedersi respinti dai circuiti culturali internazionali. Una dinamica che ricalca da vicino quella già vissuta dai colleghi russi: chi tace rischia di essere interpretato come complice. Non si tratta solo di cinema o letteratura. Le grandi istituzioni culturali europee, dai musei alle fondazioni musicali, si interrogano. Le università discutono di boicottaggi accademici. Le case editrici valutano quali autori pubblicare, quali tradurre, quali eventi cancellare. È la stessa catena di reazioni già sperimentata con Mosca: un corto circuito tra politica e cultura che trasforma il palcoscenico artistico in un terreno di battaglia simbolico. Eppure, se il rischio è quello di una colpevolizzazione indiscriminata, resta forte la spinta etica che muove questo movimento. La cultura non accetta di essere neutrale. Non vuole ridursi a cornice estetica mentre il mondo brucia. Quando le immagini di Gaza arrivano sugli schermi o nei festival, la distanza tra spettatore e vittime si riduce, perché è radicale la distanza tra guerra e cultura.
Torna alle notizie in home