Trump nobel per la guerra
Forse ha definitivamente rinunciato a candidarsi al Nobel per la pace, oppure vuole incarnare alla lettera il motto latino Si vis pacem, para bellum – Se vuoi la pace, prepara la guerra. Fatto sta che Donald Trump una ne fa e cento ne pensa, spesso tutte e centouno sbagliate. In questi giorni si fa un gran parlare della decisione del presidente Usa di reintrodurre la denominazione storica di “Dipartimento della Guerra” per il Pentagono.
Anche il segretario della Difesa Pete Hegseth ora si chiama segretario della Guerra. La mossa parte della campagna per rafforzare l’etica guerriera nelle forze armate – di fatto un ritorno alle radici militari americane, evocando le vittorie ottenute nel Novecento (e ovviamente tacendo delle sconfitte). Le parole sono importanti: siti web governativi, segnaletica e denominazioni ufficiali sono stati tutti aggiornati, con la briefing room del Pentagono ribattezzata “Pentagon War Annex” e l’indirizzo del portale online ridenominato war.gov. Trump ritiene che l’etichetta “Difesa” limiti la percezione del ruolo militare statunitense, mentre “Guerra” sottolineerebbe una postura aggressiva e offensiva, in linea con l’immagine di forza che la Casa Bianca intende proiettare a livello globale. Forse non tutti sanno che storicamente la denominazione “Dipartimento della Guerra” è rimasta in vigore fino al 1949, quando, con il National Security Act, fu sostituita da “Dipartimento della Difesa”, riflettendo la nuova strategia di deterrenza della Guerra fredda e l’impegno nelle alleanze multilaterali. Altra cosa che forse non tutti sanno, la creazione e denominazione dei dipartimenti federali spetta al Congresso, e senza un intervento legislativo il cambiamento resta simbolico.
Ma il Potus ha agito d’imperio – come suo solito – confidando in una successiva ratifica parlamentare. Le reazioni non si sono fatte attendere, con i dem che accusano l’amministrazione di una acrobazia politica che distrae dalle reali esigenze delle truppe, mentre esperti sottolineano i costi potenzialmente elevati per aggiornare segnaletica, uniformi e documenti. D’altro canto, i sostenitori del tycoon plaudono alla scelta come riaffermazione di orgoglio nazionale e volontà di vittoria. In definitiva, la misura non modifica sostanzialmente le funzioni del Pentagono ma lancia un messaggio politico e culturale forte e chiaro: gli Stati Uniti non intendono limitarsi a difendersi, bensì riaffermare una postura assertiva, proiettando all’esterno un’immagine di potenza militare determinata e pronta all’offensiva. Tutta l’operazione in effetti è propaganda di quelle potenti ed efficaci. E oggi (come ieri, del resto) bisogna vincere anche le guerre di propaganda (basti pensare alla Cina di Xi Jinping vestito come Mao all’ultima parata della vittoria).
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