Economia

Draghi urla ma nessuno vuole ascoltarlo

di Giovanni Vasso -


Le urla di Draghi hanno fatto tremare i muri a Bruxelles. Gli hanno chiesto di redigere un rapporto sulla competitività. Lui lo ha fatto ma, a distanza di un anno, niente o poco più è stato fatto di quanto l’ex governatore della Bce ha messo nero su bianco. I fan delle percentuali storceranno il naso: non è vero che l’Ue non ha fatto niente, ha già fatto l’11% di quello che ha consigliato. Tutta roba, o quasi, in materia di sicurezza, spese di Difesa e chissà che altro. Sulle cose serie, quelle importanti, quelle che in Germania provocano il mal di pancia al solo sentirle nominare, nulla è stato né fatto né tantomeno tentato. Le urla di Draghi hanno fatto tremare i muri a Bruxelles. Ma, e nessuno lo sa meglio di lui, gridare nella casa di carta dell’Ue serve a poco o nulla. Il debito comune, quello che è invocato da tutti (tranne che dai tedeschi e dai loro alleati frugali), non si farà mai. Tantomeno per finanziare la crescita di chissà quale altro partner (o meglio sarebbe dire, a questo punto, competitor) europeo. Draghi ha urlato. Ha detto che “l’inazione minaccia non solo la nostra competitività ma pure la nostra sovranità”. Lo ha riaffermato ribadendo che, sui dazi, la Commissione ha cannato alla grande. E tutto questo perché, puntuali come una cambiale, tutti i nodi di anni e anni di mancata programmazione, di scontri interni e di visione miope, sono venuti al pettine: “Gli Stati Uniti hanno imposto i dazi più alti dai tempi dello Smoot-Hawley Act. La Cina è diventata un concorrente ancora più forte, sia nei mercati terzi sia, con la deviazione dei flussi dovuta ai dazi statunitensi, all’interno dell’Europa stessa. Abbiamo anche visto come la capacità di risposta dell’Europa sia limitata dalle sue dipendenze, anche quando il nostro peso economico è considerevole. La dipendenza dagli Stati Uniti per la difesa è stata indicata come una delle ragioni per cui abbiamo dovuto accettare un accordo commerciale in gran parte alle condizioni americane. La dipendenza dai materiali critici cinesi – ha proseguito – ha limitato la nostra capacità di impedire che la sovraccapacità cinese inondasse l’Europa, o di contrastare il suo sostegno alla Russia”. A fronte di ciò, l’Ue rimane a pontificare. A parlare, produrre carte su carte. Ad assorbire le critiche con la speranza di deviare ogni polemica nel gran calderone dei matti complottari, degli odiosi hater da tastiera, dei nazisti sempre pronti a tornare dall’Antartide. Le urla di Draghi mettono la compassata Ursula von der Leyen di fronte alla domanda delle cento pistole: “Europa, cosa vuoi fare da grande?”. Non basta solo metter su una coalizione di Volenterosi. Ecco perché: “Se riusciremo a concentrare i nostri sforzi in questo modo, il passo logico successivo sarà considerare debito comune per progetti comuni, a livello Ue o tra una coalizione di Stati membri, per amplificare i benefici del coordinamento”. E ancora: “Un’emissione congiunta di obbligazioni non espanderebbe magicamente lo spazio di bilancio ma consentirebbe all’Europa di finanziare progetti più grandi in aree che aumentano la produttività: innovazione dirompente, tecnologie su scala, ricerca e sviluppo per la difesa o reti energetiche, vale a dire dove la spesa nazionale frammentata non può più bastare”. Insomma, per diventare (davvero) Europa occorre avere il coraggio delle scelte. Prima tra tutte, quella del debito comune. Ecco perché Draghi, e le sue urla, rimarranno a risuonare nelle stanze di Bruxelles. Dove, in fondo, si decide davvero poco. Ma nessuno gli presterà ascolto.


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