Valbruna affitto da brividi 2 mila posti sono in bilico tra Bolzano e Vicenza
Lo stabilimento delle Acciaierie Valbruna di Bolzano è un caso che rischia di travolgere un distretto industriale. Non è la prima volta che accade, ma questa volta la posta in gioco appare più alta: non solo i 600 lavoratori altoatesini, ma altri 1.400 addetti tra Vicenza e Padova. Più di 2 mila famiglie sospese tra ambientalismo militante, appetiti immobiliari e scelte politiche che non arrivano. La scintilla è il rinnovo delle concessioni provinciali: la Provincia autonoma di Bolzano chiede 150 milioni di euro per 50 anni d’affitto su 19 ettari di terreno. Una cifra giudicata esosa dalla famiglia Amenduni, che ha lasciato intendere che a queste condizioni non ci sarebbero i presupposti per restare. Ma dietro le cifre si muove una vicenda che tocca la storia, la politica e la cultura industriale del Paese. A Bolzano la fabbrica è sempre stata percepita come un corpo estraneo. Dalla nascita, negli anni Trenta del regime fascista, lo stabilimento è stato legato all’idea di italianizzare l’Alto Adige attraverso l’industria e l’immigrazione di massa dal resto del Paese. Un trauma che ha segnato generazioni e che, anche dopo lo Statuto di autonomia, ha lasciato diffidenza verso la siderurgia.
APPETITI DIVERSI
Oggi su quell’area di 19 ettari si concentrano interessi diversi. Ci sono gli ambientalisti che da anni denunciano l’impatto acustico e le emissioni delle acciaierie. Ci sono gli immobiliaristi che sognano di trasformare la zona in un nuovo quartiere residenziale: il progetto “Ponte Roma” prevede 1.500 alloggi proprio accanto alle linee di produzione. Ci sono i nazionalisti sudtirolesi che vedono nello stabilimento un simbolo dell’Italia industriale che volevano tenere ai margini. Il risultato è una pressione costante per la riconversione, mentre lo stabilimento resta centrale nelle catene produttive del gruppo. Il destino di Bolzano non è isolato. La fabbrica altoatesina e quella vicentina sono interdipendenti: alcune lavorazioni iniziate a Vicenza vengono rifinite a Bolzano e viceversa. Se una chiude, anche l’altra vacilla. A Vicenza lavorano 1.200 persone, impegnate nelle produzioni più innovative: acciai speciali per turbine, aeronautica, energia. L’azienda è sana: il gruppo nel 2024 ha totalizzato utili per oltre 100 milioni di euro a fronte di un fatturato di 1,2 miliardi di euro e gli ordini non mancano. In un’Europa che chiede più acciai speciali per la transizione energetica, Valbruna ha le carte in regola per crescere. Possiede altri due siti produttivi in Canada e Stati Uniti. Eppure è messa in difficoltà non dal mercato, ma da scelte politiche. A Vicenza, dove negli ultimi anni si sono già visti i crolli della Popolare e della BPVi, cresce il timore di un nuovo shock. Il ministro del Made in Italy, Adolfo Urso, ha convocato tavoli e promesso soluzioni, arrivando persino a ventilare l’uso del golden power. Ma la vertenza resta sospesa. L’assessore all’Industria della Provincia, Marco Galateo, ribadisce che “si farà di tutto per mantenere la produzione”, ma il bando con l’affitto da 150 milioni resta sul tavolo. Intanto, i sindacati alzano la voce: “ Così rischiamo di fare la fine della Speedline, chiusa nel 2007 nonostante fosse produttiva”. Quella vicenda è un precedente inquietante: i terreni furono acquistati e poi rivenduti con una plusvalenza milionaria, trasformandosi nell’attuale parco tecnologico.
Una lunga frattura
Per capire il presente bisogna guardare indietro. Negli anni Trenta il regime fascista finanziò l’insediamento industriale. Le acciaierie Falk avviarono la produzione, seguirono Lancia, Ina e Aluminia. Migliaia di italiani arrivarono da Polesine, Abruzzo, Calabria. Nel dopoguerra le produzioni aumentarono: l’Aluminia arrivò a 1.700 addetti, al suo interno persino un mercato aziendale. Poi la stagione delle tensioni, con il Bas che nel 1961 organizzò la “notte dei fuochi” per togliere energia alle fabbriche e fermare l’immigrazione. L’autonomia concesse ampi poteri alla Provincia, che negli anni Settanta e Ottanta impose lo stop a nuovi insediamenti. La zona industriale, che dava lavoro a 10 mila persone, iniziò il declino. Negli anni Novanta, quando Falck si ritirò, la Provincia rilevò i terreni e li affittò a Valbruna per trent’anni. Fu una scelta che salvò centinaia di posti. Oggi però quella concessione è scaduta. La vicenda Valbruna è più di una vertenza locale. Riguarda l’idea stessa di politica industriale in Italia. Può un Paese che ha costruito il proprio benessere sulla manifattura permettersi di perdere un’azienda strategica, sana e con mercato, per un affitto troppo alto o per il sogno di qualche palazzinaro? Il rischio non è solo occupazionale. È culturale. Se una fabbrica come questa diventa un nemico da abbattere, che fiducia possono avere altre imprese nell’investire in Italia? Il bivio è chiaro: salvare Valbruna e con essa 2 mila posti di lavoro, un patrimonio di competenze e di storia industriale, oppure aggiungere un’altra occasione perdute. E a Vicenza, dove l’acciaio speciale ha radici antiche e continua a nutrire export e ricerca, la paura è già concreta: senza Bolzano, anche il cuore rischia di smettere di battere.
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