Manovra, alla fine decide Giorgetti
Dopo il rating Fitch, giù il deficit ma in vista del bilancio bisognerà fare le (solite) scelte
In autunno le serate si fanno più fresche, i tramonti più lunghi, cadono le foglie e si comincia (finalmente) ad entrare nel vivo in vista della manovra, su cui decide, ancora una volta, Giorgetti.
Da ogni parte, ormai da settimane, piovono promesse, richieste, appelli. La lista dei desideri è lunga e il rischio, anche quest’anno, è quello di finire a redigere un libro dei sogni che, amaramente, resterà tale quando occorrerà fare i conti con la realtà. Quella dei numeri, da questa si parte. E mai come quest’anno le premesse non sembrano poi così malaccio. Dopo aver incassato l’upgrade del rating da parte di Fitch (e non fa niente se per la “A” bisognerà aspettare ancora), arrivano pure i numeri dell’Istat. Secondo cui l’Italia non brillerà ma, almeno, presenta quei famosi fondamentali solidi che le hanno fatto guadagnare la stima dei ragionieri di mezzo mondo. Il debito, per dire, è sceso rispetto alle previsioni al 134,9% del Pil salendo di un punto (133,9%) rispetto al 2023. Anno per cui, con somma soddisfazione del Mef, gli analisti di via Cesare Balbi hanno rettificato la percentuale di crescita del Pil: salì all’1% e non solo dello 0,7% come avvenuto nel 2024. A via XX Settembre, poi, s’è brindato quando l’Istat ha certificato che nel 2024 la diminuzione del rapporto deficit-Pil, che si è attestato al -3,4%. Significa, sostanzialmente, fare un passo avanti importante verso l’uscita dai rigori del nuovo Patto di stabilità (senza crescita) imposto all’Italia da Bruxelles. Addirittura il saldo primario che torna in territorio positivo (0,5% rispetto al -3,5%) è una di quelle notizie per cui festeggiare. E saranno questi, senza ombra di dubbio, i numeri che Giancarlo Giorgetti sciorinerà mercoledì e giovedì quando si presenterà a Palazzo Madama per rispondere prima ai gruppi che lo hanno convocato e poi al question time proprio in vista della manovra.
Ci sarà poco da girarci intorno: il Parlamento, e con esso i cittadini, vogliono sapere che manovra sarà. Perché i temi, sul piatto, sono (al solito) tanti. Le scelte, però, devono essere nette, precise e finalizzate. Il ministro Adolfo Urso, parlando ieri al Salone della Ceramica, ha detto che gli obiettivi saranno quello “del sostegno alle famiglie per incrementare la natalità e alle imprese per aumentare la base occupazionale”. Il titolare del Mimit ha annunciato che allo studio ci sarà “un nuovo strumento di incentivazione nazionale con risorse nazionali che possa prendere il posto sia di Industria 4.0 che di Transizione 5.0”. Una mossa per tentare di dribblare “i limiti del Green Deal” che hanno escluso dall’ultima misura “proprio le imprese che ne avrebbero più bisogno, le imprese energivore come appunto la siderurgia, la chimica, l’industria della carta, del vetro, della ceramica”. Ecco, il Green Deal su cui già c’è l’accordo tra industriali e governo: “La più grande cavolata mai fatta”, ha affermato il numero uno di Confindustria Emanuele Orsini che torna a tuonare sulla necessità di portare i prezzi dell’energia a quote più normali in un Paese che paga bollette più salate persino di quelle che si pagano nella martoriata Ucraina. Da viale dell’Astronomia, oltre a ribadire la richiesta di un piano da otto miliardi, si è chiesto a Bruxelles di trovare il coraggio di superare l’era verde e di avviare un programma “whatever it takes” a favore dell’industria. Più facile a dirsi che a farsi per la povera Ursula costretta a funambolismi assurdi, tra socialisti indiavoli e mozioni di sfiducia a intermittenza, per mantenersi in sella. Se l’industria vuole otto miliardi, per la sanità ce ne saranno (almeno) quattro. S’è impegnato, a tal proposito, il ministro Orazio Schillaci davanti all’assemblea sindacale dei medici Anaao-Assomed. C’è, poi, la questione del ceto medio in un Paese in cui, tornando ai dati sui conti economici pubblicati dall’Istat, la pressione fiscale vola al 42,5% e, di sicuro, a pagare non sono né i super-ricchi come le multinazionali né tantomeno le fasce più deboli della popolazione. La questione è legata a filo doppio, anzi triplo, con quella del Fisco. Che amico proprio non lo è diventato ancora, semmai un conoscente. Il viceministro Leo non si sbilancia e ritiene di voler aspettare ancora prima di trarre un bilancio sulla stagione dei concordati. Su tutte le questioni ne incombe un’altra: quella delle spese per la Difesa “imposte” da Bruxelles. Sarebbe una beffa essere arrivati fin qui, aver superato (quasi) tutti gli ostacoli, aver dovuto sopportare una delle tassazioni più esose, aver recuperato credibilità (e meno interessi sul debito da pagare) per poi prendere il tesoretto e investirlo in armi a discapito di scuola, sanità, imprese, famiglie e ceto medio perché così ha deciso la Commissione Ue. Ecco, la vera sfida di Giorgetti, in questa manovra che pare di vacche grasse ma che, in fondo, non lo è, sarà quella di coniugare le richieste dell’Ue e i bisogni del Paese in un momento storico in cui l’Italia, piuttosto che arrancare, può addirittura sembrare più forte dal punto di vista economico e finanziario. Al punto da poter chiedere un altro contributo alle banche. Che lo daranno, se sarà come l’anno passato, ben volentieri. E magari qualcosa uscirà a proposito già oggi a latere dell’incontro tra Forza Italia e l’Abi. In autunno le serate si fanno più fresche, cadono le foglie e l’Ufficio parlamentare di bilancio inoltra gli incartamenti e i documenti su sui sarà incardinata la nuova manovra. Che, anche quest’anno, dovrà decidere tra le mille esigenze del Paese (e dell’Europa). E sulla manovra, a decidere, alla fine sarà Giorgetti. Anche quest’anno.
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