Politica

Zaia avverte gli alleati “Il Veneto resta alla Lega, altrimenti un problema”

di Ivano Tolettini -


Pontida è stata ancora una volta il palcoscenico di uno scontro politico che va oltre i confini della Lombardia. Stavolta non è bastato il folklore delle bandiere, i cori e gli slogan a nascondere il cuore del messaggio: l’acclamazione per Alberto Stefani, giovane segretario veneto della Lega, non è stata solo l’incoronazione di un possibile successore, ma soprattutto l’occasione per Luca Zaia di lanciare un segnale duro e inequivocabile. Se il candidato alla guida del Veneto non sarà un leghista, l’unità della coalizione potrebbe vacillare. Una frase, pronunciata con la consueta sobrietà dal governatore, che ha avuto l’effetto di una minaccia politica. Dopo quindici anni di dominio incontrastato, Zaia non vuole che la sua regione finisca per diventare terreno di conquista di altri partiti. Sa bene che Fratelli d’Italia ha messo la freccia alle politiche 2022, accelerando alle europee. Eppure, la sua popolarità resta un capitale enorme, che né Giorgia Meloni né Matteo Salvini possono ignorare. Per questo le sue parole non sono state solo un avvertimento agli alleati, ma anche un messaggio all’interno della Lega. Salvini ha bisogno di dimostrare che il partito resta padrone del proprio cuore identitario, quella regione-laboratorio che più di ogni altra ha incarnato l’anima leghista, dalle battaglie sull’autonomia fino alla gestione di governo. In questo schema, il nome di Stefani diventa il simbolo di un passaggio generazionale, capace di garantire continuità allo “stile Veneto”. Pragmatismo, attenzione all’economia reale, dialogo con le categorie, capacità di parlare a un elettorato che si è progressivamente allontanato dal verbo originario del Carroccio. L’analisi va condotta su due livelli. Il primo è regionale: il Veneto resta il cuore pulsante del consenso leghista, sebbene ridimensionato. Consegnare la presidenza a un esponente di FdI significherebbe riconoscere la leadership meloniana, in uno dei territori più identitari della Lega. Il secondo è nazionale: la sfida per l’egemonia nel centrodestra passa anche dai governi locali. Avere un governatore leghista in Veneto è la condizione per mantenere un equilibrio politico che oggi pende sempre più verso Palazzo Chigi. La strategia di Zaia è chiara. Non potendo candidarsi di nuovo, trasforma la propria uscita di scena in un atto politico: blindare la successione, condizionare gli alleati, restare punto di riferimento anche a partita conclusa. La sua minaccia non è stata urlata, ma ha avuto il peso di incrinare le certezze di chi pensava a una corsa già chiusa. Giorgia Meloni e i suoi sanno che rompere con la Lega sul Veneto rischierebbe di aprire ferite profonde, con conseguenze dirette sulla stabilità del governo. A Pontida sono emerse due anime del Carroccio. Una più nazionale, legata al ruolo di Salvini come leader di governo, e di Vannacci che è mal digerita dal leghismo veneto, una radicata nella storica questione settentrionale. Alla domanda su quale sia l’anima autentica della Lega, Salvini ha risposto: “No, c’è un’unica anima, che nasce autonomista e federalista e rimane tale. Trent’anni fa non c’erano le guerre in corso e non c’era lo strapotere della burocrazia europea. Oggi essere autonomisti in Italia e sovranisti in Europa è naturale. Non vorrei portare a casa l’autonomia dopo trent’anni e poi scoprire che Bruxelles decide tutto sulla testa di tutti”. Mentre Salvini ha ricalibrato l’orizzonte politico, gli alleati osservano con attenzione. “La coalizione sta ragionando su costi e benefici delle varie candidature. Si farà la sintesi”, ha commentato Raffaele Nevi, portavoce nazionale di Forza Italia. “Gli auspici sono legittimi, ognuno tira l’acqua al proprio mulino, ma bisogna scegliere il candidato che metta d’accordo il maggior numero di forze politiche. Non esistono quote, non esistono discendenze monarchiche. Se finora in Veneto c’è stata la Lega, non sarà automatico che debba esserci ancora”. Ecco il nodo. Quella frase di Zaia, “per il Veneto un leghista, altrimenti sarà un problema”, pronunciata domenica dal palco di Pontida, suona come un avvertimento pesante. In un autunno elettorale che il 23 novembre vedrà al voto Veneto, Campania e Puglia, il braccio di ferro interno al centrodestra è plastico. Tutto è rinviato a dopo le elezioni nelle Marche, quando mercoledì 1 ottobre i leader della maggioranza si incontreranno per l’accordo. Fino ad allora, la minaccia di Zaia continuerà a risuonare come una spada di Damocle sulla coalizione. Il Veneto è il simbolo di un equilibrio di potere, la cartina di tornasole di un rapporto complesso tra Lega e Fratelli d’Italia. E la battaglia per la candidatura non deciderà soltanto il futuro della regione, ma il baricentro politico dell’intera coalizione di governo.


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