Quando i like sono a costo della vita (altrui)
I like che stanno sostituendo il buon senso
Ogni giorno assistiamo indirettamente a scene che dovrebbero scuoterci: un uomo crolla per strada, una donna che viene aggredita, un bambino picchiato da bulli. Lo abbiamo visto recentemente nella drammatica storia di Iryna Zarutska, 23 anni, rifugiata ucraina che è stata uccisa in un vagone della metropolitana in North Carolina. L’aggressore, Decarlos Brown Jr., con precedenti penali e problemi mentali, è stato arrestato poco dopo. Una morte registrata e diffusa senza filtri. Un filmato dalle telecamere interne: nitido e angosciante. La ragazza non era sola, ma i passeggeri nel vagone non hanno reagito; nessuno si alza. Alcuni guardano, altri si spostano, qualcuno probabilmente filma. Un uomo con un coltello ha appena sgozzato una ragazza e il treno continua a correre, come se nulla fosse. Solo una persona prova ad intervenire, ma come sappiamo le ferite erano troppo gravi e la ragazza è morta. Indignazione iniziale, poi i fatti si dimenticano. È diventata “normale prassi” assistere alle disgrazie altrui rendendolo pubblico per ottenere i cinque minuti di fama.
L’argomento è trattato anche dalla psicologia
In psicologia vene chiamato “effetto spettatore” o “bystander effect”, ossia più persone sono presenti, minore è la probabilità che qualcuno intervenga. Tutti spettatori, nessuno che agisca – per timore o paura delle possibili conseguenze -. Non è teoria astratta: ci sono studi che confermano come, nelle emergenze, la reazione dei passanti sia più spesso passiva che attiva. Si preferisce filmare, postare, commentare piuttosto che prendere posizione, chiamare aiuto, intervenire; quando servirebbe sostegno, arriva invece un video e i like del caso. È cambiata la scala dei valori e delle priorità: l’immagine che circola, il video che sarà virale, diventano più importanti dell’essere umano che sta soffrendo, che sta subendo. Spesso, chi riprende è più impegnato al successo del video, che a chiamare un’ambulanza. Un’azione più grave se si pensa che in molti casi quel gesto “di testimonianza” può non bastare o arrivare troppo tardi. Un recente studio sull’arresto cardiaco extraospedaliero (OHCA) mostra che in Europa solo circa il 15% dei casi viene iniziata la rianimazione cardiopolmonare da parte di passanti, anche se nel 70% dei casi c’è qualcuno presente che potrebbe farlo. Nel nostro Paese, la formazione al soccorso (BLS) sta notevolmente aumentando, ma resta ancora una ristretta minoranza rispetto alla popolazione totale.
Quando “i like” hanno aiutato i casi
Poi, ci sono casi emblematici in cui le riprese effettuate dai passanti hanno aiutato concretamente la risoluzione di omicidi, come quello dell’arresto di George Floyd (Minneapolis, 2020), divenuto noto in tutto il mondo. In quel caso una passante, Darnella Frazier -allora 17enne – riprese con il cellulare l’intera scena dell’arresto violento da parte dell’agente Derek Chauvin. Una ripresa di oltre nove minuti, mostrava l’agente con il ginocchio sul collo di Floyd, nonostante l’uomo gridasse “I can’t breathe” (non riesco a respirare). Quelle immagini smentirono la prima versione ufficiale della polizia, che parlava di “malore durante l’arresto”. Il video diventò virale in pochissime ore, generando proteste globali contro la brutalità degli interventi della polizia americana e fu determinante per aprire un’inchiesta e per la condanna dell’agente, che senza quella prova rischiava l’assoluzione. Casi a confronto in cui resta sempre fondamentale l’importanza di campagne che smuovano la paura e soprattutto le coscienze, sottolineando che spesso, chi aiuta in modo tempestivo, potrebbe salvare delle vite.
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