Immigrazione e integrazione: l’acritica politica social
Annus Domini 2020. Enrico Letta, già presidente del Consiglio, pubblicò un tweet sull’allora Twitter, poi ribattezzato X dal suo nuovo padrone Musk. Scriveva testualmente: «ho apprezzato la mostra all’Ara Pacis sull’imperatore Claudio, primo imperatore straniero a Roma, primo di una lunga serie. Quanto erano più lungimiranti di noi i romani, bravi a integrare e prosperare…». La pedanteria – vizio o virtù, ancora non è chiaro – e il mio oscillante amore-odio catulliano per la storia, mi obbligano a sollevare alcune domande di fondo: Letta ha scritto il vero? Ha sbagliato? Ha manipolato consapevolmente i fatti a fini politici? Proviamo a mettere ordine e sforziamoci di capire – facendo leva su un fatto relativamente lontano nel tempo ma sicuramente paradigmatico – quanto l’uso dozzinale, strumentale e acritico dei social, possa creare enormi problemi sul piano culturale arrivando a spendere lucciole per lanterne, o veicolare un’idea rafforzata da accadimenti storici, che non tutti possono conoscere nel dettaglio. Claudio, contrariamente da quanto sostenuto, non fu affatto uno straniero: le sue origini erano pienamente italiche. Nacque sì a Lugdunum (oggi Lione) nell’agosto del 10 a.C., ma solo perché il padre, Druso Maggiore, si trovava lì impegnato in una campagna militare. Druso era di stirpe italica, figlio di Livia – la terza moglie di Augusto – e dunque inserito a pieno titolo nella cerchia augustea. Anche dal ramo materno la discendenza era squisitamente romana: la madre Antonia Minore era figlia di Marco Antonio e di Ottavia, sorella di Augusto. In definitiva, il futuro imperatore apparteneva a una famiglia dalle radici solidamente italiche. Dunque, ahimè, l’Onorevole Letta, in quel suo lutulento cinguettio, lasciò trapelare una colossale disinformazione storica o ha manipolato parte della storia per supportare i suoi convincimenti rispetto al fenomeno migratorio? Resta però da considerare il secondo punto del messaggio, quello sull’integrazione. Qui la faccenda si fa più interessante. Claudio pronunciò infatti un discorso di enorme rilievo, conservatoci integralmente in una epigrafe celeberrima, la Tabula Claudiana, una lastra bronzea con il testo delle sue parole al senato. In quel discorso ricordava che Roma era sorta dall’incontro di popoli differenti – già Romolo aveva accolto uomini di varia origine – e citava l’esempio del re Tarquinio Prisco, figlio di Demarato di Corinto, dunque di sangue greco. A partire da questi precedenti, Claudio invitava i suoi contemporanei a non temere l’apertura verso nuove genti: in particolare propose l’inclusione delle élites della Gallia Comata (corrispondente alla Francia settentrionale) nella cittadinanza e perfino nel senato romano. Naturalmente non si trattava di un’integrazione priva di condizioni: per essere accolti, i provinciali dovevano romanizzarsi. Non a caso, proprio in quell’epoca prese piede la battuta secondo cui «i Galli depongono i pantaloni per indossare la toga». L’immagine era chiara: abbandonare i costumi propri significava adottare le regole, i simboli e i costumi di Roma. Claudio, più di ogni altro imperatore prima di lui con l’eccezione forse di Giulio Cesare (che imperatore non fu mai), decise di includere i provinciali, ma a condizione che questi si lasciassero plasmare dalla romanità. In conclusione, ho citato Enrico Letta che non colse nel segno né sul primo né sul secondo punto, per errore o per scelta non è dato sapere, certamente le sue affermazioni avevano un chiaro obiettivo. Infatti, Claudio non fu mai un imperatore straniero: le sue radici erano pienamente italiche. E quanto all’integrazione, è vero che l’imperatore aprì il senato a nuovi ceti provinciali, ma lo fece imponendo condizioni precise: adottare i costumi, la religione e i modelli sociali di Roma. Non si trattava affatto del multiculturalismo che oggi consideriamo la cifra qualificante dell’integrazione, ma di un processo di assimilazione unilaterale. La romanità restava la misura di tutte le cose, il diverso poteva essere accolto solo nella misura in cui smetteva di esserlo. Perciò, caro Onorevole, il paragone con la nostra epoca fa acqua da tutte le parti, tranne che con la sua idea d’integrazione. I Romani integravano, sì, ma soltanto alle loro regole.
di PIERSAVINO DE GUBERNATIS
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