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Cronaca

Netanyahu, Hamas e i finanziamenti sospetti

di Priscilla Rucco -


Nel teatro geopolitico mediorientale poche relazioni appaiono così contraddittorie come quella tra Benjamin Netanyahu e Hamas. Nemici giurati ufficialmente, ma protagonisti di una dinamica che negli anni ha sollevato domande scomode: è possibile che due avversari dichiarati abbiano, in qualche misura, tratto vantaggio l’uno dall’esistenza dell’altro?

L’equilibrio del terrore

Per comprendere questa relazione occorre, però, partire da una contraddizione fondamentale. Netanyahu ha costruito la sua continuità politica – è stato il primo ministro più longevo nella storia israeliana – sulla promessa di garantire la sicurezza. Hamas, dal canto suo, ha consolidato il proprio controllo su Gaza opponendosi all’esistenza stessa di Israele. Due forze apparentemente inconciliabili, eppure legate da un’interdipendenza che ha plasmato la realtà palestinese e israeliana per oltre un decennio. La strategia di Netanyahu verso Gaza è stata per molto tempo definita dagli storici come “gestione del conflitto” piuttosto che risoluzione. L’idea era mantenere Hamas sufficientemente indebolita da non rappresentare più una minaccia esistenziale, ma abbastanza forte da rimanere al potere a Gaza. Per quale ragione? La risposta rivela una delle verità più scomode del conflitto: un movimento palestinese diviso è un movimento palestinese incapace di negoziare.

La divisione come “status quo”

Quando Hamas prese il controllo di Gaza nel 2007, espellendo con la forza l’Autorità Palestinese, si creò una frattura che ha lacerato il movimento nazionale palestinese. Da una parte Gaza sotto Hamas, dall’altra la Cisgiordania sotto l’ANP di Mahmoud Abbas. Due entità, due visioni, nessuna possibilità di parlare con una sola voce. Per Netanyahu e la destra israeliana, questa divisione rappresentava un’opportunità. Come si può negoziare la creazione di uno Stato palestinese quando i palestinesi stessi non hanno un’autorità unitaria? La risposta è semplice: non si può. E così, mentre pubblicamente Israele dichiarava Hamas un’organizzazione terroristica con cui non si poteva trattare, privatamente alcuni esponenti della leadership israeliana vedevano nel dominio di Hamas su Gaza un comodo ostacolo al processo di pace. Le parole di alcuni ex funzionari israeliani sono rivelatrici. Nel 2019, Netanyahu stesso avrebbe detto in una riunione del Likud che “chiunque voglia impedire la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas”. Una dichiarazione che, se confermata, svelerebbe il cinismo di una strategia decennale.

I flussi di denaro

La politica si misura anche in termini concreti, e uno degli aspetti più controversi della gestione Netanyahu è stato il permesso accordato al trasferimento di fondi dal Qatar a Gaza. Ufficialmente, si trattava di assistenza umanitaria per una popolazione stremata dal blocco e dalle guerre ricorrenti. Nella pratica, questi fondi – parliamo di milioni di dollari – hanno permesso a Hamas di pagare stipendi, fornire servizi e, secondo i critici, anche di continuare a rafforzare le proprie capacità militari. Quando i leader della sicurezza israeliana sollevavano dubbi su questa politica, la risposta era sempre la stessa: meglio prevenire un collasso umanitario totale a Gaza, che potrebbe portare a un’esplosione incontrollabile. Un ragionamento non privo di logica, ma che solleva una domanda: dove passa il confine tra gestione pragmatica e complicità indiretta?

Il vantaggio reciproco

Se Netanyahu ha beneficiato della divisione palestinese, Hamas ha trovato nella politica della destra israeliana la conferma della propria narrativa. Ogni nuova colonia in Cisgiordania, ogni dichiarazione contro la soluzione dei due Stati, ogni operazione militare diventava una prova che il dialogo era inutile e che solo la resistenza armata aveva senso. Sul piano elettorale, poi, la dinamica era cristallina. Ogni escalation rafforzava i falchi da entrambe le parti. Netanyahu vinceva elezioni promettendo sicurezza dopo i razzi da Gaza; Hamas consolidava il proprio potere presentandosi come l’unico baluardo contro l’occupazione. Un circolo vizioso in cui moderazione e compromesso erano le prime vittime. Gli elettori israeliani, spaventati dagli attacchi, si rivolgevano al leader che prometteva il pugno di ferro. I palestinesi di Gaza, stremati dal blocco e dalla mancanza di prospettive, vedevano nell’ANP di Abbas un’autorità corrotta e impotente, mentre Hamas almeno “resisteva”. Due popoli intrappolati in narrazioni che si alimentavano a vicenda.

Il 7 ottobre: la fine dell’equilibrio

E poi è arrivato il 7 ottobre 2023. L’attacco di Hamas ha frantumato ogni illusione che la situazione potesse essere gestita indefinitamente. Le dimensioni del massacro, la ferocia dell’aggressione, il numero di ostaggi hanno rappresentato il fallimento più clamoroso della strategia Netanyahu. Come è stato possibile che l’intelligence israeliana, considerata tra le migliori al mondo, non abbia visto arrivare un’operazione di quella portata? Le domande si sono moltiplicate. Netanyahu, che aveva fatto della sicurezza il proprio marchio politico, si è trovato di fronte al peggior attacco nella storia di Israele. L’uomo che aveva “gestito” Hamas per anni si è scoperto impreparato quando quella gestione è esplosa. Le indagini che seguiranno stabiliranno le responsabilità specifiche, ma il danno politico per Netanyahu è stato devastante.

Le domande che ci restano

Oggi, mentre Gaza è ridotta in macerie e il bilancio delle vittime continua a salire, le domande sulla relazione tra Netanyahu e Hamas assumono un peso ancora maggiore. Era davvero inevitabile arrivare a questo punto? Quante opportunità sono state perse negli anni in cui entrambe le parti hanno preferito la gestione del conflitto alla sua risoluzione? La verità è probabilmente più complessa di qualsiasi teoria cospiratoria. Non si tratta di un accordo segreto, ma di una convergenza perversa di interessi. Netanyahu aveva bisogno di Hamas per giustificare la propria linea dura e impedire un processo di pace che la sua base elettorale rifiutava. Hamas aveva bisogno della politica di Netanyahu per legittimare la propria esistenza e la propria strategia. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: due popoli ostaggi di una dinamica che non porta da nessuna parte se non a nuovi cicli di violenza. E la domanda che dovrebbero porsi sia gli israeliani che i palestinesi è semplice quanto dolorosa: per quanto tempo ancora potremo permetterci il lusso di leader che traggono vantaggio dal conflitto anziché dalla sua risoluzione? La storia di Netanyahu e Hamas è, in definitiva, la storia di come la politica possa pervertire persino i conflitti più sanguinosi, trasformandoli in strumenti di potere. E fino a quando non avremo il coraggio di guardare in faccia questa realtà, l’unica certezza è che il sangue continuerà a scorrere.


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