Donald Trump ha firmato l’accordo di pace per Gaza a Sharm el-Sheikh. Poco dopo è toccato al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, con cui ha co-presieduto il vertice egiziano sul futuro della Striscia, al presidente turco Recep Tayyp Erdogan e al premier del Qatar, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani. Oltre venti i leader internazionali presenti all‘International Conference Center, tra cui la premier italiana Giorgia Meloni.
L’inizio della nuova era immaginata da Trump
L’intesa su Gaza “apre le porte a una nuova era di pace e sicurezza in Medio Oriente”, ha dichiarato al-Sisi nel suo intervento al summit. L’egiziano ha sottolineato che il suo Paese ospiterà una conferenza per la ricostruzione dell’enclave palestinese e rimarcato che la soluzione a due Stati è “l’unico modo per soddisfare le aspirazioni sia del popolo palestinese che di quello israeliano di mettere fine al conflitto”. “Ci sono voluti tremila anni per arrivare fin qui”, ha detto il tycoon, enfatizzando il lungo lavoro di cucitura fatto a monte per avvicinarsi ad una giornata che lo ha visto come protagonista assoluto tra gli applausi, anche alla Knesset in Israele, se si esclude la contestazione isolata dei parlamentari Ayman Odeh e Ofer Cassif del partito Hadash, che hanno mostrato dei fogli con delle scritte per chiedere il riconoscimento dello Stato palestinese.
Prima della cerimonia egiziana, Israele ha rilasciato, come da accordi, 1.968 prigionieri palestinesi in cambio della liberazione degli ultimi 20 ostaggi ancora vivi che erano nelle mani di Hamas nella Striscia di Gaza.
L’azione di Witkoff e Kushner
Gli inviati speciali di Trump, Steve Witkoff e Jared Kushner, sono già al lavoro per la fase due dell’accordo a Gaza. Il capo della Casa Bianca ha parlato di “alba storica di un nuovo Medio Oriente”, soffermandosi sulla questione della ricostruzione che darà alla regione un futuro brillante davanti, soprattutto grazie al denaro che può arrivare dai partner mediorientali. Kushner è stato il grande architetto degli Accordi di Abramo, la base politica e diplomatica su cui gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo vogliono costruire il nuovo ordine regionale. L’obiettivo di Washington è chiaro: rilanciare le intese e creare un Medio Oriente attrattivo per gli investitori, con le fazioni estremiste fuori dai giochi.
I petrodollari per il rilancio
Il tour a maggio scorso di Donald Trump tra Arabia Saudita, Qatar e Emirati Arabi Uniti, non è stato un viaggio di svago. Il “Board of Peace” pensato per Gaza ha finalità più ampie. Non più guerre per procura, ma business in tempi di pace. Il Medio Oriente nella visione trumpiana è una piattaforma di cooperazione e sviluppo. Chiaramente la strada da percorrere non è libera da ostacoli. Il primo è rappresentato da un nemico dichiarato: l’Iran, con i suoi proxy. Il secondo è un amico non sempre affidabile: il premier israeliano Benjamin Netanyahu con il suo governo che si regge anche grazie ai numeri dei fondamentalisti. Il messaggio trumpiano a “Bibi” è questo, in buona sostanza: “La guerra è terminata, adesso pensiamo agli affari”. Le bombe sono nemiche dei contratti fruttuosi.
Il nodo Barghouti
Un problema potrebbe essere costituito anche dal disarmo di Hamas e dalla futura architettura istituzionale di Gaza. Occorre un uomo forte e autorevole. Per molti palestinesi, l’unica persona in grado di riunire Gaza e Cisgiordania sotto una stessa leadership è Marwan Barghouti, il capo di Fatah simbolo della prima e della seconda Intifada. Per Israele la sua libertà rappresenta un rischio troppo grande. Barghouti resterà in carcere dopo aver passato già 23 anni dietro le sbarre. Malgrado le pressioni internazionali e le richieste di rilascio arrivate anche da gruppi per i diritti umani, Tel Aviv ha nuovamente escluso la sua scarcerazione.
Considerato dall’Economist “il prigioniero più importante del mondo”, da alcuni definito il “Mandela palestinese”, Barghouti è l’unico esponente sulla scena palestinese considerato in grado di colmare il vuoto di potere lasciato da Mahmoud Abbas e di gettare le basi per un nuovo progetto nazionale. La sua figura, popolare anche tra i sostenitori del movimento islamico di resistenza, potrebbe tornare utile anche a chi allo stato attuale per ragioni di equilibrio non può scontentare troppo palesemente Netanyahu.