Processo alla sicurezza: quando difendere chi ci difende diventa un problema politico
L’Italia che si vergogna della polizia, nel Paese dei decreti “mille-tutto”, quello da scardinare è giusto il decreto che colmando vuoti normativi, si sforza di fornire tutele più adeguate ai costanti rischi che corre il personale delle forze di polizia, fornendo, tra l’altro, strumenti a supporto delle funzioni per l’esercizio dei poteri delegati alle Autorità di Pubblica Sicurezza.
C’è una legge non scritta in Italia, il decreto-legge va bene solo quando serve a prorogare, condonare o distribuire bonus. Se invece si occupa della sicurezza dei cittadini e della convivenza civile, scatta l’allarme democratico. Da Craxi in poi, la decretazione d’urgenza è diventata la stampella dei governi di ogni colore. Tutti la usano, nessuno se ne vergogna. Tranne quando riguarda la Polizia di Stato e le Forze di Polizia. Allora sì! si riscopre la Costituzione. Stavolta sul banco degli imputati c’è il Decreto Sicurezza.
Lunedì prossimo, la Consulta dovrà decidere se il Governo abbia esagerato. Il deputato Riccardo Magi (+Europa) sostiene che mancavano i requisiti di necessità e urgenza, in sintesi, che non ci fosse fretta. Provate a dirlo a un agente che rientra dal turno di servizio con la mascella rotta, o a quello che ha rischiato di perdere un occhio. Certamente, il decreto in discussione non introduce lo stato di polizia, come qualcuno sussurra nei centri sociali o nei salotti da tè. Si limita a punire più severamente chi deliberatamente colpisce un lavoratore in uniforme che serve lo Stato, garantendo qualche tutela in più a chi ogni giorno esce di casa senza sapere se tornerà.
Eppure, è bastato questo per scatenare il riflesso condizionato di una parte della politica italiana. Proteste, anatemi, editoriali indignati. Non piace agli antagonisti, alle centrali sindacali, all’opposizione pronta a invocare la libertà come scudo e a una parte della magistratura, particolarmente attenta sul piano culturale ai temi della libertà di manifestare. In Italia funziona così, i decreti “mille-proroghe” passano senza un colpo di tosse, ma quello che si sforza di tutelare il lavoro e la funzione delle forze di polizia va processato.
La Costituzione, ricordiamolo, richiede per i decreti-legge la necessità e urgenza. Ma davvero, in un Paese dove ogni settimana un agente viene ferito e i carabinieri vengono fatti esplodere e uccisi, c’è bisogno di spiegare che la sicurezza pubblica è un’urgenza nazionale? Forse sì, perché qui l’urgenza è tale solo quando si tratta di bonus edilizi o incentivi di fine legislatura. Dietro il ricorso di Magi non c’è solo un cavillo giuridico. C’è un vizio antico di una riserva mentale, politica e culturale. Lo Stato come nemico, la divisa come simbolo da abbattere, la forza pubblica come male necessario, da tollerare.
È la sindrome di una certa Italia, che non si riesce o non vuole emanciparsi da schemi superati dalla storia e dalla società; quindi, la libertà è confusa con l’impunità, ma una democrazia che disprezza chi è preposto a garantirla finisce per disprezzare sé stessa. Uno Stato che non protegge chi lo serve è fragile, la sua autorevolezza delegittimata. E così, mentre la Consulta discuterà di prerogative e cavilli, nelle strade le manifestazioni che degenerano, vedranno ancora i poliziotti impegnati a garantire le proteste, omaggiati da colpi di spranghe, bombe carte e molotov.
La sinistra più autentica, un tempo, difendeva i poliziotti perché figli del popolo. Ora tace, paralizzata dalla paura di essere omologata alla destra. Ma la sicurezza non ha colore così come la giustizia, perché oltre che un diritto,sono funzioni ineludibili dello Stato, non una sua inclinazione ideologica. L’uniforme non è il nemico, grazie alle donne e agli uomini che la indossano, si garantisce la condizione che rende possibile anche la protesta di chi quell’uniforme insulta e denigra. La Costituzione nata dalla Resistenza non è un feticcio da sbandierare a piacimento, ma una bussola.
E la bussola, se la si guarda bene, indica anche la sicurezza pubblica come fondamento a garanzia delle libertà. Perché, chi lavorando al servizio della comunità rischia la vita perché preposto a porsi tra la folla e lo Stato, diversamente la nostra libertà resterebbe un esercizio di retorica politica e parlamentare. In estrema sintesi, la sicurezza in Italia non è una priorità da soddisfare, finché la paura generata dall’insicurezza non bussa alla porta di casa.
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