La Polizia nel Paese delle micce
C’è un Paese che non discute più, insulta, ogni tragedia un’arena, ogni parola un’arma. Le minacce al direttore del Tempo, l’attentato a Ranucci, le parole di Ilaria Salis sui tre carabinieri morti, episodi diversi, ma il fil rouge che li lega è intriso dello stesso veleno. La violenza è diventata argomento politico, il rancore lo spartito dell’inciviltà.
In mezzo, la Polizia, chiamata a garantire la sicurezza pubblica è “il tutto”, in una società che non riconosce più l’autorità, costretta a difendersi da chi la accusa e a proteggere chi la disprezza. Gli agenti di polizia sono lo specchio di un Paese che pretende sicurezza ma considera ogni divisa un abuso. Ma i poliziotti intervengono, sempre, anche dove la civiltà abdica, mentre una parte dell’opinione pubblica applaude quando cadono. L’antagonismo grida contro l’autoritarismo, ed esulta la violenza che colpisce le divise.
L’Italia è ormai un’arena, non una democrazia ma una folla che urla. La vera crisi è nel linguaggio della politica che ha smarrito le parole, sostituite da slogan e hashtag. I leader parlano come influencer, con lessico da spot e profondità da tweet. Alcuni opinionisti o mediocri scrittori, filosofi del nulla, pontificano in diretta con la certezza di chi non rischia. Il confronto è diventato un ring, si insulta con tono impeccabile, si odia con grammatica plurale e inclusiva. La verità non interessa, basta affermare di avere ragione ed essere di tendenza su X.
Intanto il Paese scivola in un’anarchia morale dove tutto è permesso, purché serva a umiliare qualcuno. La tolleranza è debolezza, la misura codardia, la moderazione un vizio borghese. Così giochiamo con la miccia, convinti che l’esplosione riguarderà sempre gli altri. Poi, quando salterà tutto, ci sarà chi darà la colpa al Governo, chi alla Polizia, e chi al destino cinico e baro. Nessuno, come sempre, a sé stesso. E forse allora capiremo che la prima bomba l’abbiamo costruita con la bocca.
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