Autonomia, il mito del Nord che sfida Roma centrale. E la premier prova a risalire in Puglia
Il calendario politico
C’è qualcosa di simbolico nel calendario politico che il governo si è costruito: prima la giustizia, poi le Regionali, e subito dopo, parola di Calderoli, l’Autonomia differenziata. Come se la riforma dei magistrati e quella delle Regioni dovessero misurare, insieme, la tenuta del sistema. In realtà, sono due Italie che faticano a parlarsi. Una che reclama spazi, responsabilità, risorse; e l’altra che teme di perdere il controllo, come se ogni delega fosse una sconfitta del centro. Il ministro Calderoli lo ripete da mesi: “Dopo il voto si corre”. E il patto con la premier Meloni sarebbe scritto: un Consiglio dei ministri entro fine novembre, poi le prime intese entro gennaio. Materie “leggere”, come protezione civile e professioni, ma anche il tabù della sanità, che i leghisti vogliono nel pacchetto. È il loro terreno d’identità, la bandiera che Zaia e Fontana non vogliono ammainare. Zaia lo dice con chiarezza: “Niente pause”. Il Veneto ha già pronte le carte, i dossier, le tabelle di competenze. “Ora serve la firma”, insiste. È il linguaggio del Nord produttivo, quello che misura il tempo in trimestri e il potere in efficienza. Calderoli sa che è anche un messaggio elettorale: la Lega ha bisogno di un risultato politico, non solo territoriale, per recuperare centralità dopo mesi di visibilità calante a Roma.
L’autonomia
L’Autonomia è l’ultimo mito federale rimasto intatto nel suo pantheon. Ma il Paese resta diviso. Nel Mezzogiorno la parola “Autonomia” continua a suonare come una minaccia: non differenziazione, ma disuguaglianza. Il centrosinistra teme la frammentazione del welfare e la creazione di venti sistemi sanitari paralleli. Ma il paradosso è che proprio nella sanità, con i Lea già definiti, l’Autonomia potrebbe funzionare meglio che altrove. In mezzo a questi due mondi, il Nord che chiede di contare e il Sud che teme di perdere, si muove una Premier che conosce bene la psicologia del potere: temporeggiare finché serve, poi incassare. Meloni vuole evitare lo scontro prima del voto, ma sa che il pressing leghista crescerà dopo le urne. Calderoli ha già pronte le bozze, Zaia il calendario, Fontana la sponda politica. L’accordo è chiaro: nessun passo indietro, e se possibile, una foto del Consiglio dei ministri che sancisca “il via libera alle prime intese”.
Le opinioni
Poi, certo, c’è la voce di chi osserva da lontano. Il professor Bertolissi, giurista e studioso del federalismo, ha sintetizzato meglio di tutti il nodo culturale: “Siamo un Paese giacobino, incapace di capire il pluralismo”. È questa la vera linea del Piave dell’Autonomia. Forse per questo il dibattito sull’Autonomia sembra sempre sospeso tra mito e diffidenza. Da una parte la Lega, che la agita come un trofeo; dall’altra Roma, che la teme come una scissione del potere. E in mezzo un Paese abituato a delegare in alto ciò che non riesce a risolvere in basso. Ma il punto non è “più Stato o meno Stato”: è uno Stato che funzioni. Intanto la premier prepara il palco di Bari, dove lunedì vi salirà con Salvini, Tajani e Lupi per sostenere Gigi Lobuono contro Decaro. Sarà il segnale dell’unità del centrodestra prima del voto e, per la Lega, anche l’occasione per ribadire che dopo la Puglia e il Veneto l’Autonomia dovrà tornare in cima all’agenda di governo. Per Lobuono la corsa è davvero in salita, a differenza di Alberto Stefani in Veneto, dove il risultato appare già scritto.
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