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Cultura & Spettacolo

Cinquant’anni di supercazzole e nuvole personali

Mezzo secolo di risate amare: quando “Amici Miei” e “Fantozzi” ci hanno spiegato chi siamo.

di Andrea Fiore -


Nel 1975, il cinema italiano smette di raccontare favole e inizia a raccontare la vita vera. Non quella eroica, ma quella fatta di uffici grigi, matrimoni stanchi e sogni che si sgonfiano come gomme bucate. Amici Miei e Fantozzi escono nello stesso anno, senza incontrarsi mai, ma sembrano scritti uno accanto all’altro. Due film che, con stili opposti, ci mostrano lo stesso panorama: un’Italia che si arrangia, che sogna la fuga, che inciampa nella realtà e ci ride sopra. La risata non è liberatoria: è un riflesso nervoso, un modo per non urlare.

La sopravvivenza alla mediocrità

I protagonisti di Amici Miei scappano dalla routine con scherzi crudeli e viaggi improvvisati. Quelli di Fantozzi restano immobili, inghiottiti da un sistema che li mastica ogni giorno. Ma il motore è lo stesso: l’insoddisfazione. Nessuno è felice, nessuno si sente realizzato. E allora si inventano strategie per non affondare. Chi con la zingarata, chi con la rassegnazione. La comicità diventa una lente d’ingrandimento: non per distrarci, ma per mostrarci quanto siamo fragili, ridicoli, umani. Il sorriso arriva, ma ha sempre un retrogusto amaro. Perché dietro ogni gag c’è una verità che punge.

Degli specchi che non invecchiano

Monicelli e Salce non ci hanno mai consolato. Hanno preferito prenderci in giro, con affetto e precisione chirurgica. Hanno messo in scena l’italiano medio, quello che sogna la libertà ma si sveglia con la sveglia a molla. Quello che vorrebbe mollare tutto, ma poi si accontenta di una cena in famiglia e di una battuta al bar. Cinquant’anni dopo, quei film non sono diventati vecchi. Sono diventati specchi. Guardarli oggi significa guardarsi dentro. E scoprire che, nonostante tutto, siamo ancora lì: a cercare un senso, a ridere per non piangere, a sperare che la prossima zingarata sia quella buona.

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