L’avversario migliore
Tommaso Cerno
di TOMMASO CERNO
Per noi figli dell’Espresso Berlusconi è stato l’avversario. Ma è stato anche l’avversario migliore possibile per un giornalista. Perché ha insegnato anche e soprattutto a chi non la pensava come lui, a chi lo vedeva come qualcosa da combattere, a leggere meglio l’Italia e gli italiani. Non si tratta di fare retorica di fronte alla morte, ma di fare i giornalisti per l’ultima volta con quell’uomo di cui si è scritto e parlato più che di ogni altro italiano della nostra epoca.
E questo perché il berlusconismo e il suo opposto, l’anti berlusconismo, sono due fenomeni gemelli, indissolubili, che le storture di un Paese rimasto orfano negli anni 90 di un’intera classe politica hanno reso di fatto un tutt’uno. Con un vantaggio per chi è stato per molti anni un oppositore del Cavaliere e della sua visionaria idea dell’Italia.
Perché raccontando il Berlusconi che lui non voleva si conoscesse, non potevi far altro che tentare di entrare nella sua mente. E una volta lì dentro ti rendevi conto che c’era una simbiosi tra quell’uomo e gli italiani, che attraverso quel filtro si comprendeva meglio il Paese che si voleva difendere, se ne percepivano emozioni e aspettative inedite, in fondo si diventava un po’ più italiani.
Ed è questo elemento di Silvio Berlusconi quello che ha contaminato più di tutti anche la sinistra sua storica avversaria, a tratti nemica giurata, alla ricerca perenne di un antidoto. Una sinistra che le ha provate tutte per toglierlo dal centro del campo, ma che di fatto ha preso le sue sembianze e le sue misure, diventando nel tempo il rovescio di Berlusconi, il negativo di quell’immagine, forse più che un’alternativa autonoma.
Un limite che vediamo ancora oggi nel tentativo di edificare un progetto politico alternativo alla destra di Giorgia Meloni, incappando sempre negli stessi errori, quelli cioè di porsi come unità non sulla base di una visione, giusta o sbagliata che sia, come invece fece Berlusconi, ma di un antagonismo che smette di esistere nel momento in cui dall’altra parte non c’è più il nemico.
Confondere già all’inizio della grande epopea berlusconiana, fatta di luci e di ombre, di sole e di tenebre, il ruolo materiale che le sue aziende e le sue televisioni potevano esercitare sull’immaginario del Paese in quanto televisioni di proprietà di Silvio, con invece la ben più profonda rivoluzione del linguaggio che Berlusconi aveva negli anni condiviso con gli italiani ne è un esempio.
Berlusconi non si impose al Paese perché era il proprietario delle televisioni, ma perché parlava come loro, perché era un italiano come il suo pubblico, perché in milioni di famiglie era di casa, come un amico, come un parente. E così adesso di fronte alla morte di Berlusconi ci sentiamo spiazzati. Perché in fondo non l’abbiamo mai visto invecchiare, se non nei tratti e nella fatica della parola negli ultimi mesi. E questo perché ormai l’Italia era abituata a lui e godeva dei suoi successi, se stava tra i suoi supporter, o fremeva per le cadute.
Come se il Cavaliere fosse passato a salutarci pochi minuti prima. E così proprio a chi ha cercato per anni quell’antidoto, ha raccontato il potere berlusconiano, le sue contraddizioni, ha gridato al rischio di una democrazia aziendale, Berlusconi ha aperto gli occhi e ha lasciato in eredità una complessità di analisi del nostro Paese che è lontana anni luce da quel metodo bipolare che ancora oggi relega la politica a scontro fra tifosi.
Si poteva essere anti-berlusconiani, ma non si poteva pensare che in quella parola ci fosse la soluzione non tanto alla presenza materiale del Cavaliere ai vertici del Paese e dell’imprenditoria italiana quanto alla possibilità che quel fenomeno che aveva rivoluzionato la storia contemporanea dell’Italia potesse scomparire, senza avere lasciato parti di sé non tanto in chi l’ha sostenuto e supportato ma proprio in chi si è convinto, tante anzi troppe volte, di averlo sconfitto. Ritrovandosi poi a raccontare poco tempo dopo l’ennesima storia di Silvio che ricominciava.
Torna alle notizie in home