Cronaca

Caso Caffaro: “Tutti sapevano dei pericoli ma nessuno voleva parlare”

di Ivano Tolettini -


Caso Caffaro “Tutti sapevano dei gravi pericoli ma nessuno voleva parlare”. Il libro di Marino Ruzzenenti.

Il docente bresciano Marino Ruzzenenti ha dedicato una parte della sua vita alle questioni ambientali della sua città, legate indissolubilmente alla Caffaro. La storica azienda che è stata attiva fino al 2020, gli ultimi dieci anni nel perimetro societario del gruppo toscano di Antonio Donato Todisco, ha avvelenato un’area di 262 ettari. Ruzzenenti ha scritto un libro “Veleni Negati – il caso Caffaro” in cui sviscera le problematiche di un’emergenza che nel corso degli anni è diventata vieppiù grave, unn disastro ambientale che la giurisprudenza un tempo definiva “disastro innominato” che riguardava il suolo, il sottosuolo fino a venti chilometri dal capoluogo, le acque sotterranee e le rogge superficiali dell’area dove c’era la sede dello stabilimento chimico. E nonostante finora non è stato fatto nulla per bonifica del sito, nonostante le tante promesse, le assunzioni di responsabilità di agire in questo senso da parte dei ministri e delle amministrazioni locali che negli anni si sono succeduti e i finanziamenti stanziati per decine di milioni di euro. Ci si è limitati al Mise, alla barriera idraulica che l’industriale chimico Antonio Donato Todisco e i presunti complici hanno finito di mettere a punto, secondo le prescrizioni dell’Arpa, di recente. Lo Stabilimento della Caffaro di via Nullo, passato di proprietà in proprietà nel corso dei decenni, è la riprova di quella che Ruzzenenti chiama una sorta di ansia “autolesionista dettata dall’irrefrenabile desiderio di ricacciare sotto il tappeto lo sporco fatto riemergere in quel maledetto 13 agosto 2001, che ha segnato l’intero percorso della vicenda”. Quando cioè ci si trovò al cospetto di un disastro ambientale, di proporzioni inimmaginabili, oltre che a una generale impreparazione tecnica e scientifica. «Il Comune, con l’allora sindaco Paolo Corsini e l’assessore all’Ambiente Ettore Brunelli, aveva commissionato un’analisi di rischio che in conclusione proponeva di elevare di 290 volte i livelli accettabili di Pcb nei terreni, ignorando che comunque i terreni erano e sono contaminati da livelli analoghi di diossine, i cui limiti sono stabiliti dall’Oms» e, dunque, invalicabili. “La verità – ripete Ruzzenenti – è che per lungo tempo si è andati avanti cercando di negare o sottovalutare il caso. Perché riconoscerlo da parte delle istituzioni significava prendere coscienza delle proprie responsabilità. In nome del progresso e degli interessi nazionali è stata fatta una vera guerra chimica contro lavoratori e cittadini. La colpa è delle aziende private, che tuttavia sono state coperte dagli organi di controllo e dallo Stato, che aveva necessità e interessi rispetto a questa produzione”. Ruzzenenti chiama in causa anche quella che definisce l’”aristocrazia operaia” perché nonostante si sapesse della pericolosità per la presenza dei Pcb (policlorobifenili), che il Giappone ad esempio vietò fin dal 1972, mentre la Caffaro su licenza Monsanto li produsse fino al 1984, “gli stessi lavoratori e il sindacato per anni hanno taciuto rispetto a questi temi preferendo tutelare il lavoro prima della salute”. “Si sentivano privilegiati nel panorama bresciano, perché la chimica era un settore d’avanguardia e i salari più alti. I lavoratori erano considerati aristocrazia operaia” e tutti, compreso il sindacato, chiusero molti occhi per non affrontare la pericolosità della fabbrica.


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