Cultura & Spettacolo

Baia, la Las Vegas degli antichi romani finita sotto il mare

di Cristiana Flaminio -


Dove andavano in vacanza gli antichi romani? Dipende, ovviamente. Dal litorale laziale fino a quello campano, le testimonianze archeologiche parlano chiaro: i ricchi e i potenti di Roma, appena possibile, sfuggivano dal caos dell’Urbe per dedicarsi intere settimane di relax nelle loro opulente e sfarzose ville d’ozio. Da Anzio e Sperlonga fino alle ambitissime mete della Campania Felix, i patrizi (e i plebei arricchiti) se la spassavano ingannando la canicola. Ma la città del divertimento e delle vacanze, per gli antichi romani, una delle mete più gettonate, specialmente dai ricchi, era Baia. Che si trova oggi, in parte, nel territorio di Bacoli, nei pressi di Napoli. In parte, già, perché l’area dove sorgeva la Saint-Tropez dell’antichità è finita, per colpa del fenomeno del bradisismo, sott’acqua. E oggi, infatti, è possibile visitare gli scavi sottomarini che raccontano il fasto dell’antica meta turistica campana. Inizialmente, era molto frequentata perché, oltre al mare, offriva la possibilità di accedere alle terme solforose dell’area puteolana. Da luogo di pace e terme a meta di trasgressione, il passo fu brevissimo. Più che Saint-Tropez, a un certo punto, Baia si trasformò in una sorta di Las Vegas per l’upper class romana. Con un unico, grande, problema: a differenza di quanto accade a Las Vegas, che, come ci insegnano le serie tv americane, “resta” a Las Vegas, quello che succedeva a Baia finiva, direttamente, ad alimentare l’eterno, persistente e invincibile chiacchiericcio dei salotti buoni dell’aristocrazia romana. La cittadina oggi napoletana finì per diventare l’emblema del vizio, il luogo in cui s’avverava tutto quanto era severamente proibito dal rigore austero del mos maiorum romano. Specialmente alle donne, soprattutto alle donne.
A questo proposito, nella letteratura latina, si contano alcune testimonianze a dir poco eloquenti sulla “fama” di Baia. Ennio, pater delle lettere romane, già la conosce come terra di giochi e divertimenti e quindi come meta della vacanza ideale degli antichi romani. Ma Cicerone, nell’orazione Pro Coelio, per dare di Clodia, sorella del suo arcinemico politico, il tribuno Publio Clodio Pulcro e moglie del disattento proconsole Quinto Metello Celere nonché Lesbia amata e odiata dal poeta Catullo, il ritratto di una “meretrix” fece riferimento al fatto che frequentasse “i giardini (e non solo) di Baia”. Il poeta elegiaco Properzio, qualche anno più tardi, pregò la sua amatissima Cinzia di non andare a prendere il sole in quella “spiaggia ostile da sempre alle fanciulle pudiche”. E infine lanciò un solenne anatema: “Morte alle acque di Baia, delitto d’Amore!”. Avrebbe dovuto immaginare che, secoli dopo, la sua maledizione si sarebbe avverata con lo sprofondare della città. Una testimonianza ancora più esplicita e sicuramente “arrabbiata” ci arriva da Terenzio Varrone secondo cui, a Baia, le donne si prostituivano in pubblico e i vecchi si comportavano in modo indegno. La cattiva nomea della perla dei Campi Flegrei si conservò intatta negli anni. Il dotto e saggio Seneca sconsigliava al giovane amico Lucilio di frequentare le spiagge di Baia, a causa degli ubriachi che la infestavano e del baccano che arrivava dalle barche e dalle ville dove si tenevano festini, orge con la musica sparata a tutto volume. Anche se, ovviamente, all’epoca di Dj non ce n’erano. Il malizioso Marziale, in uno dei suoi epigrammi, loda la dolcezza di Baia e, contestualmente, sparla di Levina, pudica matrona romana, che le mollezze flegree. Pure lei, come molte altre prima e dopo, secondo il poeta, erano arrivate austere come Penelope e se ne erano tornate a Roma divoratrici di uomini, come Elena di Troia. Con la fine dell’Impero, finì anche Baia. I Vandali (nomen omen) la saccheggiarono. La città cadde. Letteralmente, prima in rovina e poi dentro le onde di quel mare che l’aveva resa la perla di Roma.


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