Attualità

L’avatar di Basaglia e i manicomi del web

di Francesca Albergotti -

Beautiful young hipster woman using smart phone at beach


Spesso mi trovo a pensare che se il temerario professor Basaglia fosse vissuto oggi invece che nel 1978 mai avrebbe considerato e combattuto per la chiusura dei manicomi, piuttosto avrebbe preteso, battendo forte i pugni sul tavolo del ministero, di aprirne qualche altro. O magari si sarebbe volontariamente chiuso lui in un manicomio, in preda a un violento attacco di “derealizzazione” che lo avrebbe reso talmente avulso dal mondo esterno al punto di preferire condividere la propria quotidianità con gli amati bizzarri pazienti piuttosto che spendere anche solo un minuto della sua esistenza nel tentativo di “capire” quelli fuori.

Una volta rinchiuso, avrebbe potuto avere il privilegio di intavolare conversazioni sulla poesia con Dino Campana, ampliarle dividendo in mensa una zuppa di patate con Alda Merini, dissertare a proposito “dell’infinito grido acuto che penetra nella natura” genesi dell’opera di Munch con Munch stesso, discutere con Georg Cantor sul potere seduttivo della matematica. Lui e i suoi pazienti sarebbero stati protetti dalla dissennata flotta di personaggi che assedia la nostra realtà.

D’altra parte neppure per Basaglia il “visionario”, nonostante la grande saggezza, sarebbe stato prevedibile immaginare un mondo nel quale una ragazza bionda decida di vendere dei vasetti con i suoi peti. E già sarebbe abbastanza sconcertante concepire che lei li crei e li metta in vendita, ma che qualcun altro li compri… a 900 dollari la confezione da mezzo chilo! Per fortuna al momento i vasetti non sono disponibili perché la ragazza sembra abbia abusato di integratori ingollati per intensificare il meteorismo, quindi per ora vengono solo accettati ordinazioni in pre-ordine.

Se qualcuno oggi lo raccontasse al professore lui di certo chiederebbe, aggrottando le sopracciglia “Ma la paziente, come fa a venderli questi vasetti?”, “On line, è semplice, lei immagini un mondo parallelo, tipo i manicomi, dove però i pazienti hanno un mucchio di ’discepoli’. Questo modello di manicomio non si può chiudere come ha voluto lei, chi è dentro è felicissimo di starci. Gli ospiti credono in cose inesistenti e non riescono a distinguere cosa sia reale e cosa no, però non si sentono emarginati, né pericolosi socialmente e non si sognano neppure di chiedere la restituzione della propria dignità.

Le patologie son più o meno le stesse, ma le forme son diventate fluide, volatili, ambigue e veloci, proprio come previsto da un certo Bauman. Pensi che buffo li chiamano ’social’, si mischiano malati e sani in un curioso gioco delle parti, ma è sempre più difficile distinguere gli uni dagli altri”. Sono sicura che Basaglia rimarrebbe confuso, lui che tanto aveva penato per reintegrare e riumanizzare “socialmente” i suoi malati. Vorrei raccontargli delle challenge su Tiktok, delle “cicatrici francesi” (chi riesce a darsi il pizzicotto più forte sulla guancia) gli stessi soggetti che vengono denominati “generazione Alpha” e che forse son quelli che nel “manicomio” ci stanno meno bene se, soltanto al Bambin Gesù, i casi di tentativo suicidario nell’ultimo decennio sono aumentati di 40 volte.

Gli vorrei parlare di una ragazzina imitatrice di una pioniera americana che ha “adottato” 12 bambole reborn (quelle impressionanti con gli arti snervati sembrano vere) e trascorre le sue giornate a curarle, nutrirle, cambiarle e addormentarle mentre lancia sondaggi tipo “Cosa diamo oggi da mangiare a Olly?”. Il sondaggio è vario, ci son talmente tante decisioni da prendere quando hai 12 figli. Sono sicura che Basaglia, da curioso esploratore della natura umana, tenterebbe di identificare nuove patologie e nominarle in maniera corretta. Perché nominare in maniera corretta le cose è un modo per diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo.

Negli stessi anni ’70 nei quali in Italia venivano chiusi i manicomi l’antropologo Robert Levy decise di condurre uno studio sul perché nell’isola di Tahiti ci fosse uno spropositato numero di suicidi fra gli abitanti. Un’isola bellissima con clima mite, palme ondeggianti e mare cristallino, com’era possibile pensare di uccidersi? Dopo un’attenta analisi Levy arrivò a una conclusione sconcertante, tanto da coniare una nuova parola: ipocognizione.

Perché nel vocabolario dei Tahitiani esistevano una quantità enorme di termini per rappresentare il dolore fisico, un vocabolario medico minuzioso con sfumature per ogni più piccolo disturbo, un glossario considerevole per spiegare qualsiasi disturbo connesso al corpo. Viceversa non disponevano di alcun termine per indicare l’altro dolore, quello dell’anima: la tristezza, la malinconia, la rabbia, il senso di colpa, l’angoscia, la nostalgia.

Non sapendo esprimere con le parole quel dolore insopportabile, senza nessuna possibilità di riconoscerlo, condividerlo né elaborarlo, l’unica scelta possibile rimaneva togliersi la vita. Da allora dovremmo avere imparato che l’incapacità di individuare e ammettere le sofferenze dello spirito ci trascina inevitabilmente in un oscuro cortocircuito di disperazione. Così potente da portarci al suicidio, anche se l’illusione è di essere vivi.


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