Non chiamatelo melodramma sullo spartito dell’innovazione
A rifletterci sopra, il melodramma italiano è un’espressione d’arte tutta speciale, profilata sull’orlo di un abisso di ridicolo, che si equilibra grazie al talento di pochi autori. Una riflessione che ritorna a vivere quest’anno grazie al ripescaggio di “Mefistofele” di Boito, che verrà rappresentato in tre teatri italiani, con il Lirico di Cagliari a fare da capofila a tre grandi allestimenti, seguito il 27 novembre dal teatro dell’Opera di Roma, titolo di apertura della stagione, e poi ad aprile dalla Fenice di Venezia.
A Roma sarà un bel da fare per il direttore d’orchestra Michele Mariotti, eccellente rossiniano, far rivivere un’opera il cui libretto, sosteneva causticamente Fedele d’Amico, avrebbe avuto a supporto ideale una partitura musicale di Offenbach. E’ invece più facile prevedere il successo (a meno di imprevisti che sul palcoscenico sono sempre all’ordine del giorno) di John Relyea nel ruolo del titolo, abituato com’è a interpretare i personaggi melodrammatici figli del capolavoro di Goethe, dal Mephisto della “Dannazione di Faust” di Berlioz al “Faust” di Gounod; o di Maria Agresta nella parte di Margherita, soprano arrivato alla sua massima caratterizzazione vocale, con un sontuoso registro centrale impreziosito da un’emissione solida e da un fraseggio sapientemente curato.
Ma la vera impresa la dovrà compiere il giovane regista australiano Simon Stone, che porta in scena per la prima volta in Italia un’opera, dopo i successi ottenuti nei cinema e nei teatri di tutto il mondo. Uno di quei registi fin troppo innovatori che di norma contrariavano Paolo Isotta, come quando in una “Traviata” di quattro anni fa, trasformò Violetta Valery in una influencer, con tanto di profilo su Instagram, decine di migliaia di followers, in un tripudio di selfie, schermate con le chat, cuoricini dei like.
La storia di questo “Mefistofele” è esemplare perché ben rappresenta i gusti imperanti nello Stivale, non solo per la versatilità dell’autore, ma anche per la volubilità del pubblico e della critica. Iniziò nel 1868 con il più clamoroso fiasco registrato nei due secoli di spettacoli musicali della Scala di Milano. Ma anche, otto anni dopo a Bologna, con la sua inopinata resurrezione.
Parve incredibile che i suoi estimatori plaudessero la condensazione dei due “Faust” di Goethe in un libretto solo: Boito rispettava talmente poco Goethe che aveva soppresso l’importante monologo iniziale e alla fine concedeva la salvezza a Faust dietro esibizione di una copia del vangelo. Il segreto probabilmente era nella circostanza che l’autore si dichiarava rivoluzionario della musica, e questa etichetta guadagnò alla sua opera quel favore che l’avanguardia e i suoi critici d’assalto di solito dichiarano istintivamente per ogni avanguardia “ufficiale”.
Mentre per il pubblico borghese il successo fu segnato da un’opera che musicalmente, soprattutto dopo il suo parziale rifacimento per il pubblico felsineo, era la risultante di un incrocio piuttosto tradizionale di romanza da salotto e d’opera, melodie alla Tosti, ariosi e serenate, il tutto, secondo il parere autorevole di Richard Wagner, realizzato con la mano di un dilettante, seppur di talento (“Il “Mefistofele” di Boito è il ricamo di una deliziosa fanciulla”, scrisse).
Questo è uno dei paradossi di “Mefistofele”: l’autore aveva dichiarato guerra alle convenzioni melodrammatiche – cosa che urtò non poco il grande vecchio Giuseppe Verdi – in nome di ideali retorici, e poi le adottò, mascherandole da innovazioni. Insomma, per metterla sul leggero, una specie di Renzi della musica lirica. Boito aveva studiato al Conservatorio di Milano e contemporaneamente si formò come poeta e scrittore al contatto con il movimento della Scapigliatura: la doppia inclinazione musicale e letteraria in qualche misura era ispirata dall’ammirazione per Wagner, ma non volle imitarlo: voleva ristabilire in Italia il culto della musica strumentale che una certa tradizione, in qualche misura appoggiata dall’autore di “Traviata”, riteneva estranea al genio nazionale.
Ma niente di wagneriano c’è nel “Mefistofele”, semmai il proposito di accostare l’ispirazione musicale ai grandi problemi del pensiero, allontanando il melodramma dalle consuete vicende d’amore e morte che in Italia imperavano dall’epoca del primo romanticismo.
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