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Diamoci un’identità

di Alessio Gallicola -

Alessandro Sansoni


Cominciamo dal nome. Perché questa nuova testata ne ha uno impegnativo, soprattutto al giorno d’oggi in cui la cultura alta ha la tendenza a pensare che essa sia fluida, variabile, aggiornabile a seconda dello stato d’animo e dei desideri del momento. Questo è parzialmente vero: l’identità è sempre in costruzione, subisce un processo di formazione nel tempo e nello spazio, nei pensieri e nelle emozioni.

Resta il fatto, però, che l’essere umano viene al mondo sempre “in contesto” e con alcune caratteristiche innate, naturali o storiche, dalle quali non si può prescindere, perché esse sono il materiale su cui agisce, poi, il processo di formazione. E questo vale non soltanto per gli individui, ma anche per le comunità di individui.

Assumendo questo punto di vista – per certi versi banale, ma ormai non più scontato – l’identità, e in particolare quella collettiva, si va affermando come una questione cruciale di questi giorni che stiamo vivendo e del futuro cui andiamo incontro.

La globalizzazione ci aveva infatti lasciato credere che il pianeta ormai fosse unico e fosse possibile ipotizzare perfino un governo globale. La pandemia prima e il conflitto russo-ucraino poi, con la nuova “cortina di acciaio” (parafrasando il titolo dell’ultima monografia della rivista Limes) che sembra ormai essere calata sull’Europa orientale, ha riportato all’attenzione di tutti l’inevitabile destino degli uomini, condannati ad essere consapevoli che per definire un “noi”, bisogna riconoscere che esistono gli “altri”, con i quali, se possibile, è meglio coesistere pacificamente e nel rispetto reciproco.

Per farlo “capire chi siamo” – socraticamente – risulta indispensabile. Ed è questo il senso della scelta di un nome, che dato a un quotidiano ha quasi una valenza programmatica.

Insomma, dopo la sbornia “cosmopolita” degli ultimi decenni è arrivato il momento di dirsi “ri-diamoci un’identità”. Sì, perché le identità possibili sono tante e una stessa persona ne comprende diverse. Esse si strutturano per cerchi concentrici, che possono essere vastissimi, e quindi sotto molti aspetti indefiniti, oppure molto stretti, precisissimi come il profilo di un singolo individuo.

Trovare una giusta dimensione mediana, per gli antichi greci, era decisivo per costruire una dimensione autenticamente comunitaria e sviluppare un sentimento di appartenenza, che desse un orizzonte di senso alla vita e un’ermeneutica dello stare-al-mondo.

In questo giocavano un ruolo cruciale la lingua, la famiglia, la storia, le radici, le tradizioni, i riti, tutti quegli elementi che definivano la polis e la sua specificità. Ed è sicuramente quella l’esperienza identitaria collettiva più immediata, quella che viviamo da bambini, che ci dà l’imprinting dopo la nostra nascita. Proprio per questo motivo, L’Identità non potrà non avere una speciale attenzione alla dimensione locale, tanto più forte in un paese come l’Italia, particolarmente ricco di valori territoriali, sotto svariati profili.

L’italianità è lo step successivo. Le indagini demoscopiche ci dicono che ogni cittadino italiano si sente legato a tre fattori identitari contemporaneamente: quello cittadino, quello nazionale e quello europeo. E quello nazionale è di solito percepito come quello più compiuto. Non si tratta di un fenomeno scontato: per decenni dopo l’unificazione della Penisola, l’identità italiana è stata un fattore prettamente burocratico o limitato ad alcuni ambienti. Solo col tempo attraverso la scuola, l’esperienza della Grande Guerra e, infine, la televisione, come spiegò Pasolini, essa è divenuta idem sentire, grazie alla diffusione dell’uso della lingua e alla costruzione di un retaggio storico davvero condiviso. A dimostrazione che un’identità si può costruire, purchè esistano degli elementi che la ri-velino.

Infine c’è l’identità europea. Dei tre fattori citati prima, proprio per la sua dimensione spaziale decisamente vasta, si tratta del più flebile. Eppure è di straordinaria attualità.

Cosa significa essere europei e qual è la posizione di un Vecchio Continente che si vuole attore geopolitico unitario in un mondo non più globalizzato, ma che tende a trasformarsi in una realtà multipolare è la vera grande questione insoluta del nostro tempo. Cosa sarà l’Unione Europea dei prossimi decenni? Diverrà soggetto politico (e militare) o è destinata a tramutarsi in una sorta di dipartimento economico della NATO, un pezzo, privo di autonomia strategica, del cosiddetto “Occidente allargato”?

Per molto tempo criticarne l’impalcatura definita da alcuni trattati è stata percepito come un delitto di lesa maestà. Oggi è un tema all’ordine del giorno. Sarebbe utile un dibattito ampio, in seno all’opinione pubblica, da questo punto di vista, che vada dalla riforma del Patto di Stabilità, alla prevalenza giurisdizionale del diritto europeo su quello nazionale, per arrivare a una riflessione consapevole tra la soluzione federalista, alla Spinelli, a quella confederale, dell’”Europa delle Nazioni” alla de Gaulle, oggi entrambe presenti nell’impalcatura dell’Unione, che si barcamena tra le direttive della Commissione e le decisioni del Consiglio, dove vige il diritto di veto degli Stati membri.

Perché non è possibile immaginare una terza via? In fondo un modello di riferimento percorribile da assumere come ipotesi di lavoro esisterebbe ed è qui a due passi: la Confederazione Svizzera.

Su questo argomento, un giornale di opinione come questo, che vuole posizionarsi nell’area politico-culturale di centrodestra, in cui serpeggiano da sempre le maggiori perplessità sul funzionamento dell’attuale Unione Europea, ha l’ambizione di portare il proprio contributo di idee e di analisi. Nella consapevolezza che i valori della libertà, della persona, del lavoro e dell’impresa sono il materiale su cui l’identità dell’Europa può essere rimasticata e diventare un “noi” collettivo per confrontarsi positivamente con gli “altri”.


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