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A colloquio con Chiara Tintori: il testamento civile di Padre Sorge per una Europa solidale

di Redazione -


Esiste una “comunità di destino” nel tempo della complessità, questa è la casa comune europea, che dobbiamo impegnarci ad edificare, perché può essere la nostra ancora di salvezza. Anteporre i valori agli interessi particolari, la cultura alla finanza, la ricerca dell’unità allo spirito di rivalsa che sta lacerando la società rarefacendo ogni possibilità di dialogo: sono aspetti che devono diventare i tratti essenziali di un percorso virtuoso che ci condurrà fuori dalla crisi. Dall’Europa è, infatti, cominciata l’era planetaria nel 1492 con la conquista delle Americhe e la circumnavigazione del globo. Ce ne siamo dimenticati troppo presto, come ricorda in un saggio ricco di storia ma anche di poesia, il grande pensatore francese Edgar Morin (compirà cento anni il prossimo 8 luglio) scritto a quattro mani con il filosofo Mauro Ceruti (La nostra Europa ed. Raffaello Corina). Il vecchio Continente, denunciano gli studiosi, è come se si fosse “ristretto”, divenendo un frammento dell’Occidente. Quattro secoli fa la prospettiva era capovolta: era l’Occidente un frammento dell’Europa. Sulla stessa corrente di pensiero, fatta di un europeismo nutrito di valori, si iscrive il “testamento” dell’ultimo padre Sorge, realizzato in collaborazione con Chiara Tintori (Perché l’Europa ci salverà, ed. Terra Santa), politologa, allieva di Giovanni Sartori, già collaboratrice della prestigiosa rivista Aggiornamenti Sociali, che lo stesso Sorge ha per molti anni diretto. 

 

Bambini per entrare nel Regno, adulti per guidare con responsabilità, sensibili per disporsi all’ascolto e all’accoglienza della diversità. Vorrei cominciare la nostra conversazione dall’immagine carica di suggestioni del “nonno-bambino” che Sorge consegna al lettore nella parte finale del libro. Può spiegarci la genesi di questo libro-intervista?

Il padre Sorge degli ultimi tempi aveva due età differenti, quella anagrafica e quella spirituale. Se guardava il calendario si accorgeva di essere non solo nonno, ma addirittura bisnonno. «Certamente sto invecchiando – mi ha detto in uno dei tanti incontri che abbiamo avuto ‒ ma anche se il mio corpo si va sfasciando, l’anima mia ringiovanisce ogni giorno di più». La sua giovinezza interiore credo sia la naturale conseguenza dell’aver preso sul serio l’invito di Gesù a diventare piccoli come i bambini per entrare nel Regno. «Il Signore mi concede ancora di sognare, di parlare, di scrivere e di rendermi utile, come posso, alla Chiesa e ai fratelli». L’incedere profondo e, nello stesso tempo, colloquiale della sua riflessione mi fa considerare il saggio Perché l’Europa ci salverà. Dialoghi al tempo della pandemia come uno tra i tanti doni che il Signore ha fatto a Sorge. Nelle nostre discussioni che si focalizzano sul tempo presente, sulla malattia e la morte, sul razzismo, sulla politica italiana, sulla Chiesa di Papa Francesco, l’Europa ritorna come fil rouge, attorno a cui ruota ogni riflessione.

Lei ha raccolto l’ultima testimonianza di Padre Sorge in piena pandemia, alla vigilia della terribile seconda ondata da cui l’Italia e il mondo non sono purtroppo ancora usciti. Quali preoccupazioni occupavano la mente del gesuita in questo “tempo diverso” del confinamento?

Sorge non ha mai lasciato trapelare preoccupazioni. Quel 23 febbraio dello scorso anno, giorno in cui la Presidenza del Consiglio decise di adottare le misure di emergenza per il contenimento dell’epidemia, ho provato un sentimento profondo di nostalgia per una generazione di nonni e genitori che avevano già vissuto periodi storici drammatici, come può essere stata la guerra, o la fame. In quel momento decisi di telefonare: “Padre Sorge come va dalle tue parti?”. La risposta ha la solita voce squillante: «Innumerevoli sono i virus, ma cosa vuoi, qui siamo già in infermeria… E poi in un modo o nell’altro dovremo pure andar di là!». Il “tono” dell’ultimo Sorge emerge molto bene da queste parole. L’ uomo e il gesuita erano capaci di affidarsi allo Spirito Santo e di accogliere qualunque cosa la vita e la storia gli offrissero.

 

In occasione di un veloce scambio telefonico, Padre Sorge mi aveva confidato che a Gallarate si sentiva ormai “pronto per il Paradiso”. Il sorriso condiva sempre le sue riflessioni. Non pensa che questa particolare dote contribuisse a rendere ancora più penetrante la sua analisi dell’esistente?

Proprio così. Nei mesi successivi al lockdown la residenza per anziani non ha mai riaperto agli esterni. Sorge, pur trovandosi di fatto impossibilitato a incontrare chiunque, non si è mai perso d’animo. Mai una recriminazione, un lamento, affidava tutto a Maria, Mater Divina Gratia, e tutto trovava senso pieno e compiuto nella sua celebrazione eucaristica quotidiana. Dinanzi agli imprevisti di questo “tempo diverso” cercava risposte nuove. Ha, così, imparato a usare strumenti di comunicazione nuovi per effettuare le videochiamate, per partecipare a conferenze, per predicare esercizi spirituali a distanza. Quello che mi ha stupito è stata la sua capacità di coltivare l’umorismo al pari di una virtù. Di fatto, niente lo poteva turbare o preoccupare nel profondo. Avevo memorizzato il suo numero di cellulare come: “keine Sorge”, in tedesco vuol dire: “non ti preoccupare, nessun problema”. Era infatti convinto che tutto, ma proprio tutto ciò che accade, rientrasse in un disegno superiore, per la “maggior Gloria dell’Altissimo”!

 

Il vecchio Continente può essere la nostra ancora di salvezza, questo detto in estrema sintesi è il messaggio del libro. Si aspettava che il “testamento civile” del teologo e politologo dovesse riguardare il destino della “vecchia Europa”, oggi così incerto?

Nella riflessione di Sorge non è mai mancata la prospettiva europeista. Già nel periodo del suo soggiorno palermitano (tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta) aveva imposto all’attenzione dell’opinione pubblica il “caso Palermo” (città che ha molto amato) visto in un’ottica europea. Nella sua concezione quello che investiva la dimensione locale (Palermo e la Sicilia), non poteva non chiamare in causa un’area più vasta di interessi come quella rappresentata dall’Italia e dall’Europa. Del resto, l’Unione europea, pur con tutti i limiti anche evidenziati dallo stesso Sorge, ha espresso il più riuscito esempio di democrazia sovranazionale in settanta anni di storia. Da questo punto di vista, credo fosse prevedibile che il suo testamento civile avesse un orizzonte continentale. Inoltre, la pandemia ha smascherato l’inganno dell’individualismo: nessuno può salvarsi da solo. La presenza dell’Europa diventa, perciò, strategica, poiché nessuna nazione ha la forza autonoma per superare questa drammatica crisi.            

 

«La pandemia è una forma di manifestazione del giudizio universale che può aiutarci a smascherare il populismo e il sovranismo», così risponde Sorge a una delle tante domande che costituiscono l’ossatura del libro. Al populismo avevate già dedicato il precedente scritto.  Il gesuita da tempo stava riflettendo su questo fenomeno presente nella realtà di molti Stati, non solo europei, per arrivare a quali conclusioni?

Il compianto gesuita non ha esitato a definire, nei suoi scritti più recenti, il populismo come “cancro della democrazia”. Si tratta di un fenomeno che tende a contrapporre il “popolo” (definizione semplicistica già di per sé ambigua) alle élite, avendo come fine il rapporto diretto con la piazza, un rapporto di “pancia” che considera le Istituzioni un superfluo aggirabile. Quando le forze di governo – più o meno coscientemente ‒ si rifanno al populismo, producono risposte scomposte, quando non inquietanti, alimentando un clima sociale aggressivo e divisorio. Nella visione di Sorge l’antidoto al populismo è il “popolarismo”, che si rifà all’intuizione politica di don Luigi Sturzo, fondata su alcuni tratti distintivi: tensione ideale ed etica, rispetto della laicità, primato del bene comune, riformismo coraggioso. Nessun disegno nostalgico volto a riprogettare la costruzione del partito cattolico, ormai fuori dal tempo; piuttosto, la riflessione era ed è animata dall’esigenza di ridare vigore alla democrazia, mettendo a fuoco la ricerca dell’unità nella diversità che caratterizza ciascuno di noi.

 

Su quali basi andrà costruita quella “casa comune” che potrà ridare speranza ai cittadini dell’Unione?

L’Unione europea è nata con una sorta di “peccato originale”. L’errore risiede nell’aver cominciato la costruzione privilegiando esclusivamente la dimensione economica. Pochi giorni prima di morire, Jean Monnet aveva detto: «Se l’Europa fosse da rifare ricomincerei dalla cultura. Non dobbiamo coalizzare gli Stati, ma unire gli uomini». Le basi di un’Europa “maggiorenne” sono individuabili nella riscoperta della cittadinanza che deve accomunare identità multiple. L’immagine potrebbe essere quella dei cerchi concentrici: nel paese dove siamo nati o viviamo, si iscrive l’identità nazionale, questo primo nucleo non è sufficiente a se stesso perché ci fa anche cittadini europei. «L’identità infatti – ricorda Sorge nel libro ‒ non si costruisce sulla contrapposizione tra un “noi” e un “loro”, ma attraverso le diversità che si vanno modificando nel tempo». Il vecchio Continente non è un qualcosa di statico, ma di dinamico che evolve con la storia. In virtù di questo, serve una spinta riformista, che possa permettere all’Ue di fornire risposte solidali alle sfide sanitarie, sociali e ambientali che segnano il tempo presente.

 

Il Consiglio europeo di luglio dello scorso anno, a detta di molti osservatori, ha aperto una nuova fase. Resta, però, il nodo dei Paesi di Visegrád e dei cosiddetti “Stati frugali”. Nell’allargare il perimetro dell’Ue non pensa sia mancato un principio di selezione?

Purtroppo, all’interno dell’Unione vi sono alcuni Stati – quelli che appunto lei ricordava (Austria, Paesi Bassi, Svezia e Danimarca) che hanno dimostrato di essere fermi a una concezione dei rapporti tra gli Stati membri prevalentemente mercantile e commerciale, cioè volta a ottenere ciascuno per sé il massimo dei benefici possibili con il minimo di corresponsabilità solidale. A complicare le cose Visegrád, con Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, che professano un’idea diversa (per usare un eufemismo n.d.r.) dello Stato di diritto. Su questo aspetto padre Sorge aveva le idee molto chiare: «Può bastare – si chiedeva – la sola appartenenza geografica, perché una nazione si possa considerare “europea”? Prima di accogliere un nuovo paese a far parte dell’Unione, non è forse necessario verificare in che misura la sua concezione di Stato di diritto coincida con quella democratica liberale, propria della tradizione continentale? Ho l’impressione che si sia agito troppo in fretta nell’allargare ai paesi dell’Est i confini dell’Ue». Il risultato è che appare sempre più evidente come la tolleranza verso paesi di fatto autoritari stia creando gravi difficoltà al cammino e al consolidamento dell’Europa.

 

Le famiglie storiche del popolarismo e della socialdemocrazia sono in evidente declino. Si potrà mai rifare l’Europa senza l’apporto della cultura politica?

Stiamo purtroppo parlando di nomi e di etichette che non hanno più una rispondenza nel laboratorio storico della contemporaneità. Le appartenenze ideologiche non esistono più, di conseguenza anche le famiglie storiche del popolarismo e della socialdemocrazia, e le loro culture di riferimento, sono in declino. La “nuova Europa”, intesa come casa comune, avrà bisogno di forze politiche capaci di cercare il confronto sui programmi, più che sulle appartenenze ideologiche. Non facciamoci illusioni: non mancheranno resistenze e veti, ma il cammino è ormai tracciato, «non si può fermare il vento con le mani» come amava ripetere Sorge, quando constatava ottusi rigurgiti di conservatorismo.

 

Intravedere sbocchi, in questo scenario, non è certo facile… Da dove occorre partire?

Vi è un’ulteriore criticità che va sottolineata, che accentua la complessità del contesto, che era il maggiore cruccio di Sorge: la mancanza di una classe politica formata. Durante la pandemia era stato colpito dall’incompetenza di tanti uomini politici: non ci si improvvisa presidente di una regione né tanto meno ministro della Repubblica. La competenza, specie in Italia in cui l’analfabetismo funzionale è tornato alla ribalta con tassi quasi doppi rispetto agli altri paesi avanzati, dovrebbe essere un prerequisito di chi governa, competenza che è poi uno strumento importante per misurarsi con la forza del cambiamento in atto.

 

«Abbiamo bisogno di nuovi martiri testimoni per dare una svolta al cammino della storia». In questa frase c’è tutto l’impegno del sacerdote, chiamato a Palermo, in una terra difficile, a dirigere il Centro “Padre Arrupe” per lavorare sulla preparazione e sulla coscienza dei giovani. L’“Italia che verrà”, per usare un celebre titolo del gesuita, sarà capace di esprimere valori e figure all’altezza delle sfide della contemporaneità?

Sorge, grazie anche all’esperienza da lui vissuta in prima persona a Palermo, dove aveva visto il sangue versato da tanti martiri civili, ci consegna un messaggio chiaro: abbiamo bisogno di martiri feriali e comuni. Non tutti siamo chiamati a versare il sangue, ma tutti siamo chiamati a costruire ogni giorno la storia del nostro Paese, con la vita, più che con le parole. In quest’ottica far comprendere a tutti che la buona politica è un bene prezioso, è un preciso dovere morale che non possiamo trascurare. Questa è la sfida che ci attende. Sorge aveva fatto ancora una volta da apripista, individuando nella prima fase della pandemia tante persone che si sono spese con competenza e professionalità per servire e soccorrere i contagiati.

 

Globalizzazione della solidarietà. La centralità del pensiero di Papa Francesco è evidente in ogni momento della conversazione. “Prendersi cura” per arrestare la cultura dello scarto: questo l’imperativo categorico che emerge. Quale può essere il ruolo della Chiesa in questo momento drammatico per la storia del mondo?

Sono effettivamente molti nel testo i parallelismi e i confronti con la Chiesa di Papa Francesco. «Dove un certo linguaggio ecclesiastico e certe consuetudini sono rimaste vuote, non hanno più nulla da dire. 

Ci vuole il coraggio di Papa Francesco per svecchiare, alla luce del Concilio, le antiche strutture, nonostante la resistenza di quanti sono rimasti attaccati alla vecchia immagine temporale della Chiesa e non riescono a comprendere il rinnovamento in atto». Per Sorge, Papa Francesco si può considerare il vero realizzatore del Concilio. Per questo la frase “Francesco va, ripara la mia casa” pronunciata dal Signore a San Francesco di Assisi, può essere benissimo applicata alla figura di Bergoglio, senza dimenticare che, al di là dei conflitti tra carisma e istituzione, la Chiesa è di fatto l’istituzione più longeva della storia del mondo. Più di 2.000 anni di storia vorranno pur dire qualcosa. È da questa serena consapevolezza, che bisogna ripartire.

Massimiliano Cannata

 


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