Esteri

A un anno dalla morte, l’Iran ha in custodia lo zio di Mahsa Amini

di Martina Melli -


A un anno dalla morte, l’Iran ha in custodia lo zio di Mahsa Amini, la giovane ragazza di origini curde imprigionata e misteriosamente uccisa dalla polizia morale iraniana “per colpa” di una ciocca di capelli che usciva dal velo. La morte, violenta, inspiegabile, della giovane, ha scatenato nel Paese mesi e mesi di accese proteste contro il governo. Oggi, proprio mentre si avvicina il giorno della ricorrenza che potrebbe riaccendere la rivolta nella popolazione, il governo iraniano rafforza la repressione del dissenso.

Ieri, secondo una fonte di Reuters, le forze di sicurezza avrebbero perquisito l’automobile e  la casa dello zio, Safa Aeli, a Saqqez, nella provincia curda del Paese, senza nessun apparente motivo ne ordine ufficiale del tribunale. Lo hanno poi prelevato confiscandogli alcuni documenti, tra cui il passaporto. La famiglia non ha idea di dove possa essere stato portato. Prima dell’arresto, Aeli, 30 anni, sarebbe stato pedinato dalle forze di sicurezza per una settimana.

Secondo i gruppi per i diritti umani, durante i lunghi mesi di proteste, oltre 500 persone sono rimaste uccise, centinaia ferite e migliaia arrestate. Il Kurdistan Human Rights Network (KHRN), con sede in Francia, ha fatto sapere che le forze di polizia stanno incrementando la pressione sui familiari dei manifestanti uccisi nei disordini, convocandoli, minacciandoli o arrestandoli nelle ultime settimane. Una situazione di tensione che sembra pronta a rinfiammarsi da un momento all’altro.

In un recente rapporto, anche Amnesty International ha affermato che le autorità iraniane “hanno sottoposto le famiglie delle vittime ad arresti e detenzioni arbitrarie, imponendo crudeli restrizioni alle riunioni pacifiche nei luoghi di sepoltura e distruggendo le lapidi delle vittime”. Il quotidiano iraniano Etemad ha riferito ad agosto che Saleh Nikbakht, l’avvocato della famiglia Amini, dovrà affrontare accuse di “propaganda contro il sistema”, e se venisse condannato, rischierebbe una pena detentiva compresa tra uno e tre anni.


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