Attualità

ALESSIA, L’IRAN E NOI

di Rita Cavallaro -


Bisogna toccare il fondo per trovare la spinta a risalire. Anche il pozzo più profondo, un fondo lo ha e quando decenni di segregazione e diritti negati generano il nichilismo più assoluto, si arriva a un punto di rottura, in cui l’esistenza stessa è priva di senso se non si ha il coraggio di ritrovare quel senso e di ridare il giusto valore alla vita. Anche a costo di perderla, la vita. Quello che sta accadendo in Iran, considerato il baluardo più radicato dell’integralismo islamico, è una nuova primavera araba, che scuote il Paese da 15 giorni e che, finora, ha fatto oltre un centinaio di morti tra i manifestanti. Donne, tante, unite insieme per riaffermare l’identità in una società che già nel ’63, con la rivoluzione bianca dello scià, guardava alla modernità, all’Occidente e alle riforme di John F. Kennedy. Ma che cambiò del tutto il suo volto quando il religiosi presero il potere e a Teheran, nel ’79, si insediò Khomeini, il quale creò una Repubblica islamica che fece sprofondare l’Iran nel buio.

Nel Medioevo mediorientale che perdura ancora oggi, in cui la polizia religiosa mantiene le leggi del Corano sotto la cui scure incombono particolarmente le donne, costrette alla segregazione degli usi e dei costumi, obbligate a indossare l’hijab. Pena: la morte. La scintilla che ha fatto scoppiare le proteste nelle piazze, nelle università, davanti ai luoghi di culto è stata l’ennesimo omicidio legalizzato, commesso delle squadre del presidente Ebrahim Raisi, che avevano arrestato la 22enne curda Mahsa Amini, rea di aver indossato male il velo.
Una ciocca di capelli, infatti, era sfuggita fuori dall’hijab: un delitto gravissimo per la “polizia morale”, che il 16 settembre scorso la prese e la massacrò di botte, fino a provocarne la morte. E allora la rabbia della gente, che covava ormai da tempo sotto la cenere, fu incontenibile: schiere di donne hanno scelto consapevolmente di rischiare di essere uccise ma di non abbassare più il velo della paura. Sono scese in strada, si sono tolte l’hijab e li hanno bruciati. Si sono tagliate i capelli nella pubblica piazza, in nome di Mahsa che è diventato il nome di tutti. Anche degli uomini, perché questa volta, a cercare l’identità e i diritti, ci sono mariti, figli, fratelli. Un popolo che non vuole più volgere lo sguardo. E allora questa protesta va repressa duramente, a tutti i costi, perché ne va dell’autorità della Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, il quale ha preso la parola e ha lanciato un messaggio chiaro: “I disordini sono stati ideati e pianificati dagli Stati Uniti, dal falso e usurpatore regime sionista e dai loro seguaci”. Un’argomentazione per giustificare la repressione e, anzi, imporre alla polizia religiosa una condotta ancor più intransigente. Come se le immagini delle violenze dei militari, culminate con l’omicidio della 20enne Hadith Najafi massacrata di botte e lasciata esanime a terra o le ragazzine di 15 anni stuprate dai poliziotti e prese a cazzotti in faccia, non gridassero già di per sé vendetta. “Arrestateli tutti i traditori stranieri”, è il messaggio sottinteso dell’ayatollah.

Ed è forse uno stile di vita troppo occidentale e social, in un Paese in cui addirittura è bandita la musica pop e che non vuole rischiare che le donne alzino la testa, ad aver portato la travel blogger Alessia Piperno in galera. Il regime l’ha presa, mentre stava festeggiando il suo trentesimo compleanno con un gruppo di nove amici. E non si sa dove sia, dove sia stata portata e di cosa è accusata. La Farnesina ha avviato le verifiche e anche l’Ue si dice pronta a intervenire per la sua liberazione. Ma la situazione è molto delicata e Alessia, pur non potendo raccontare nella realtà cosa sta passando, è molto provata, come ha fatto sapere suo padre Alberto, che pochi giorni fa ha ricevuto la telefonata dalla figlia disperata. “Era lei che piangendo ci avvisava che era in prigione. A Teheran. In Iran. Era stata arrestata dalla polizia insieme a dei suoi amici mentre si accingeva a festeggiare il suo compleanno. Sono state solo poche parole ma disperate. Chiedeva aiuto”, ha scritto il genitore su Facebook. “Non si può stare fermi quando un figlio ti dice vi prego, aiutatemi”, ha concluso Alberto.


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