Cultura & Spettacolo

All’enoteca questione di etichette

di Nicola Santini -


L’unico luogo al mondo dove puoi sedere e scorgere, tra una candela e l’altra, da Giorgio Armani a Paul Smith, da Botero a Sting, seduti a fianco di Zucchero Fornaciari o Alessandro Sallusti. E poi registi, scultori, pittori, scrittori e gente comune. Un mix match che fa parte della scena. Dodici mesi l’anno. Chi per un bicchiere di vino e un crostino ai fegatini, chi per aprire una delle più blasonate bottiglie esposte, chi per gustare atmosfera dall’antipasto di pomodori dell’orto al gelato al latte di capra fatto al momento. Oppure per quella griglia passata di generazione in generazione, alla quale un tempo ruotava tutto il menu, che negli anni si è evoluto in una proposta giornaliera stagionale di ricercata semplicità.
Ognuno all’Enoteca Marcucci va per un motivo diverso. Tutti, nessuno escluso, per una parola o due con Michele, deus ex machina di questo tempio del buon bere e del mangiare, dove si ferma tutto il glamour della città di Pietrasanta. Un uomo che conosce i nomi di ogni singolo cliente che si siede ai tavoli che occupano mezza strada o che siedono senza interruzione visiva al lungo tavolo conviviale al centro della sala d’ingresso. O nelle altre due salette, più intime, caratterizzate da allestimenti che cambiano a seconda dell’umore, dell’ispirazione e della creatività di uno dei più eclettici padroni di casa nel mondo della ristorazione.
Molta forma, zero formalità: una formula che incanta. Nutre. Inebria.
Protagonisti assoluti di questo scenario sono i vini. Una carta delle più ricche d’Europa, con una cantina invidiabile, che vanta più di 2000 etichette provenienti da tutto il mondo. Tanto per capirci e non andare a caso, si può aprire uno Chateau Petrus del 2019, così come un Krug Collection 1964 Brut Magnum, uno Chateau Mouton Rothshild 1945, un Brunello Biondi Santi del 1964, Masseto del 2011 o un Sassicaia del 1998. In mezzo a questi best of della cantina, piccole produzioni di nicchia, frutto di una costante e incessante ricerca.
La cucina è quella toscana. L’impianto del menu segue la più volubile delle stagionalità, profuma di casa e di tradizione, ma senza esserne schiavo. Si assapora un ricettario contemporaneo, figlio e padre del proprio tempo che si aggiorna ravvivando il fuoco, non onorando le ceneri. La campagna locale, che è musa ispiratrice della carta, si integra con i sapori del mare. I salumi sono selezionati con attenzione, il pane odora di famiglia. Ma non c’è nulla di tipico: niente fa il verso al passato, volendo ripetere schemi da cliché di trattoria di paese. Non c’è la sensazione di aver bloccato il tempo. Il passato serve da radice, ma i rami e i frutti attingono dal presente. Così, per esempio, lo sformatino di verdure, nella sua semplicità, acquista un twist dalla panna acida; la minestra autunnale di zucca accoglie fagioli di Lucca e il cavolo nero; la monostecca di scottona si abbina alle cipolle di Treschietto al vino rosso e aceto balsamico. E, per chiudere in bellezza, castagnaccio con caco e gelato alle castagne, o, fin che c’è, l’uva fragola col suo gelato.


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