Politica

PRIMA PAGINA – Altro che “green”, i lavoratori vedono nero

di Angelo Vitale -


In principio, alla fine del 2022, fu ampio il timore che i grandi gruppi industriali del nostro continente (per esempio l’italiana Enel, ma pure le francesi Solvay e Safran, la tedesca Basf, la spagnola Iberdrola e la svedese Northvolt) potessero cedere alle sirene Usa e ai sussidi green di Joe Biden, delocalizzando negli Stati Uniti. Poi venne la manovra Ue per provare ai rispondere all’impatto di 370 miliardi di dollari di sussidi Usa allentando i vincoli agli aiuti di Stato dei singoli Paesi membri e concedendo flessibilità su tempi e modi a progetti e fondi già esistenti come il Pnrr.

Arrivò il Green Deal Industrial Plan, un programma indirizzato a sostenere le industrie che l’Europa chiamava alla transizione energetica, per tenere botta alla competitività delle rivali statunitensi e cinesi, incentivate e foraggiate dai rispettivi governi: i crediti di imposta, le misure di supporto agli investimenti, il riutilizzo di fondi comuni già stanziati, per assicurare nuovo impulso a progetti strategici, come per l’idrogeno nel campo dell’energia e per le nuove tecnologie.

Un piano studiato per essere un’opportunità, tradottosi in poco tempo in una considerevole insidia. In Regione Veneto, nello scorso settembre, erano oltre trenta i tavoli di crisi aziendali. Un peso, il Green Deal per l’automotive e per tutto il settore della componentistica metalmeccanica. Dal febbraio dell’invasione russa in Ucraina, energia e materie prime erano diventate in poco tempo la preoccupazione quotidiana dell’industria. Così, rapidamente, i target della neutralità climatica entro il 2050 si sono materializzati agli occhi di tutti impossibili. In un’Europa che fin da subito aveva trascurato di considerare – è questo uno dei principali motivi di accusa ai piani europei dal governo Meloni fin dal suo insediamento – la situazione di ogni singolo Paese membro, le differenze talvolta evidentissime tra i comparti industriali dello stesso tipo negli Stati Ue, che marciano a velocità e ritmi diversi.

Per l’agricoltura, invece, da almeno cinque anni assegnato ad operatori ritenuti strategici nel cambiamento necessario per l’adattamento climatico il compito di farsene diretti portatori. Costringendoli a paletti – il taglio netto dei fitofarmaci, l’estensione del biologico, la riduzione dei terreni coltivati e altro ancora – per affermare una agricoltura “naturale e sostenibile” senza incentivare concretamente una svolta di innovazione e ricerca scientifica nei campi. Né tranquillizzare una categoria che, a diverse latitudini del continente e pure in presenza di problematiche diverse, si ritiene comunque non a torto artefice primario del sistema alimentare.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. In Italia, gli agricoltori finora orfani di una concreta interlocuzione con le istituzioni, marciano su Sanremo con trattori, mucche e capre. Rivelando pure a chi volesse trascurarla una gravissima frattura nella loro rappresentanza: da settimane la Coldiretti, principale organizzazione del settore, è sbertucciata dagli agricoltori in marcia e accusata di essere interessato snodo burocratico per gli incentivi.

Mentre l’automotive continua il suo declino. La Fiat, ciò che ne resta dopo la sua fusione in Stellantis tre anni fa, continua a battere cassa, agitando lo spauracchio dell’occupazione a rischio a Mirafiori e Pomigliano, da sempre località simbolo della crisi. Con il presidente John Elkann a incontrare Mattarella, Giorgetti, Panetta e finanche il comandante dei Cc Luzi e l’ambasciatore Usa Markell. Mentre il ministro Adolfo Urso da settimane ricorda il miliardo di ecoincentivi disponibile, ma non certo per auto costruite all’estero.

A poco più di cento giorni dalla data delle Europee, la prossima primavera si preannuncia “calda”. El Niño a parte, i temi di queste economie a rischio sono già entrati a pieno diritto nella campagna elettorale per questa competizione.


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