Cultura & Spettacolo

AMERICA (NATA) A ROMA

di Nicola Santini -


La sostanza è un po’ questa. Fosse per me l’avrei intitolato, più che “Il primo giorno della mia vita”, “Un’americanata a Roma”. Perché tutto fa il verso al mood americano. Che con noi ci incastra ben poco. Il film ricalca il tema delle seconde possibilità. Apro una parentesi: chi scrive ne ha date anche tre, quindi prendete la recensione come se fosse scritta dalla tastiera di un pentito. Chiusa parentesi. Rientrando nelle scene, la seconda possibilità pare che sia stata data a quel genere che vede il primo giorno della sua vita con “The House of Gucci”, dove Lady Gaga fa Patrizia Reggiani come io posso fare Michael Jordan, per intenderci. Un pizza e mandolino al contrario, in buona sostanza. Che può attaccare per gli italiani immigrati da 6 generazioni a Hoboken. Ma che da noi non attacca.
Non sto a riportare la trama, ma i temi: il ruolo centrale, in tre sfaccettature, lo ricopre la solitudine. La solitudine fisica, la solitudine emotiva e quella solitudine positiva, che traghetta l’anima verso l’autorealizzazione, e inizia a dare valore al tempo, come qualcosa che dovrebbe coincidere con la qualità.
I protagonisti della pellicola sperimentano tutte e tre le solitudini e, grazie a uno chaperon dal viso segnato e gli abiti ciancicati amante del jazz, cercano di passare da un livello di solitudine all’altro. Prima di questo incontro salvifico, hanno tutti rinunciato a una vita di eccessi, che li ha resi aridi nei sentimenti fino all’incapacità di esprimerli. Per ritrovarsi nella devastazione emotiva più totale: chi su un ponte, chi sul cornicione di un palazzo, chi in automobile con una pistola col colpo in canna, chi chiuso in camera con un vassoio di ciambelle per far impazzire la glicemia fino a scoppiare (e daje de deja vu). I malcapitati hanno 7 giorni in cui dovranno decidere se uccidersi davvero o tornare nell’istante che ha preceduto l’insano gesto e ripensarci.
Se rileggo il tutto sembra anche ben confezionato. Il problema è che lo è troppo. Manca, di quello strascicato che lo renderebbe più credibile, più italiano, più roba da noi. Che quando ci siamo rotti della vita, non abbiamo le luci a favore, ma, al contrario viviamo nell’oscurità del declino. C’è una patina di troppo in tutto.
Mentre si tira a campare su quello che dovrebbe essere il cardine della storia che è la psicologia del salvatore di anime, nelle vesti di albergatore di cui non si sa quasi nulla. Disegnato bene, raccontato malissimo. Idem per i personaggi, dove non si scende a sufficienza in profondità per comprenderne i drammi, figuriamoci per sperare nelle soluzioni.
Però è tutto bello, tutto glamour, tutto caravaggesco. Ma non basta come non basta un cast di primissimo ordine. In genere con un Toni Servillo e un Valerio Mastandrea, con una Margherita Buy e una Sara Serraiocco, la riuscita psicologica o psicopatica è garantita. Però poi un film per riuscire deve essere anche scritto bene e questo è uno di quelli che ti fa rimpiangere quello che hai letto sul libro, che invece rende molto più onore al messaggio che l’autore ha voluto dare.
La solfa si può sintetizzare nel programma in slide che qualsiasi corso sull’autostima in pausa pranzo promette e che oggi si può frequentare anche on line.
Cosa si salva? Non loro, non come vorremmo. Si salva la componente estetica, che non collabora ma intrattiene. Si salvano le interpretazioni che sono, ça va sans dire, eccellenti. Si salvano certi interni e certi scorci che anche in modalità audio off meritano di essere visti, non solo guardati. La scrittura è deboluccia deboluccia. E si trascina su un’impalcaura precaria, dove nulla va realmente a fondo, o meglio, scambia l’andare a fondo con lo sprofondare. Che se avessero saputo cucinarlo a dovere, il tutto sarebbe stato probabilmente più apprezzabile. Perché bello è bello, i film brutti sono altri, ma non è interessante per niente. Lo sarebbe stata la formula se fosse stata sviluppata bene.

Avete presente quei film che, visto il trailer, vi chiedete quanto ci metta a finire quello che state già guardando per fiondarvi nella sala accanto? Ecco, la premessa era forse così intrigante che poi vedere il tutto allungato su due ore dove un Toni Servillo si mangia uova e pancetta col caffè (a Roma, per Dio!) dove non c’è un oggetto che non gridi Made in USA, non può che essere deludente. E non basta imparare la formula riavvolginastro che è la magia del film. Potendolo riavvolgere, avrei cambiato sala.

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