L'identità: Storie, volti e voci al femminile Poltrone Rosse



Attualità

Assalto a La Stampa, la crisalide nera sotto la kefiah

di Giuseppe Tiani -


C’è un tratto rivelatore nelle piazze incendiarie di pro-Pal e antagonisti. La violenza agitata come lasciapassare identitario, scagliata contro poliziotti e giornalisti con la sicumera liturgica di chi scambia il fervore per investitura epistemica. Ma nella filigrana sedimenta una neo-cultura fascista, riti d’intimidazione, tribù compatte attorno alla forza, emancipate dalla fatica del pensare, e la necessità del nemico come ossigeno della protesta. La cronaca smonta le favole, caschi frantumati, spranghe tribali, bombe carta da guerriglia urbana.

L’assalto a La Stampa

A Torino il salto di qualità, l’assalto alla sede de La Stampa, devastata dagli antagonisti di Askatasuna al grido “giornalista terrorista”. Un’iconografia squadrista, priva di uniforme ma non di metodo, la violenza come linguaggio. In questo teatro dell’inversione semantica risuona l’aberrazione di Francesca Albanese, che condanna la violenza ma trasfigura l’assalto in monito per i giornalisti. Accusati di diffondere falsità, un pacifismo muscolare che ripudia la violenza mentre ne benedice l’intimidazione, paradosso inquietante per una delegata Onu chiamata a disinnescare conflitti, non a fornire preludi morali alle minacce neofasciste.

Dietro gli scudi dei poliziotti non ci sono apparati anonimi, ma lavoratori che al mattino accompagnano i figli a scuola e la sera tornano con lividi sotto la divisa. Mettono il corpo dove altri depositano slogan anemici e bibliografie immaginarie. Il deserto corporativo non è nelle Questure, ma in una politica timorosa, incapace persino di dire “violenza” senza consultare i sondaggi. Così i novelli Diogene, con lanterna tremula e certezze evaporate, si stupiscono del 40% di affluenza senza guardare la propria indolenza.

Il velo cade a Bergamo, dove Fiano, figlio di Nedo sopravvissuto alla Shoah, viene contestato perché poco antisionista, un antisemitismo di ritorno che si finge etica e germina come muffa morale ben oltre l’estrema destra. Contestare il figlio di un deportato è un paradosso che la storia irriderebbe, se avessimo memoria.

Ma lo Stato avanza come un gigante sfiancato, con la schiena larga ma il fiato corto, e il peso ricade su agenti e Questori, privi di paracadute narrativo, inghiottiti dalla liturgia dell’indignazione. La satira non fa sconti: chi devasta le piazze in nome dell’antifascismo riproduce la grammatica che dice di combattere. La camicia nera non è scomparsa è dormiente. E sotto certe kefiah e in alcuni centri sociali, come in una crisalide inquieta che promette farfalle democratiche, si generano invece larve autoritarie, maturando prodomi tutt’altro che emancipatori. Le democrazie non crollano, si inclinano, quando l’abitudine sostituisce la vigilanza, e noi ci stiamo abituando allo stridio delle crepe che le feriscono.


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