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Astensionismo record: perché sempre più elettori considerano il voto inutile

di Adolfo Spezzaferro -

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A nulla sono serviti gli appelli dei partiti: sempre meno cittadini vanno a votare. L’astensionismo record registrato alle elezioni regionali di Lazio e Lombardia è una sconfitta per tutti. Un segnale chiaro e forte, una risposta degli elettori alle proposte dei candidati: no, grazie. Non ci interessa. I numeri sono impressionanti: nel Lazio l’affluenza è stata del 37 per cento; in Lombardia del 41 per cento – il dato più basso in 53 anni. Un crollo verticale rispetto alle percentuali della tornata del 2018: 66% nel Lazio e 73% in Lombardia. A Roma la maglia nera: ha votato il 33% degli aventi diritto. Uno su tre. Ancora meno di chi si era recato alle urne nelle ultime elezioni comunali dell’ottobre 2021, quando al primo turno andò a votare il 48,54% e al secondo turno il 40,68% degli aventi diritto.

Al di là delle percentuali di astensionismo negli schieramenti elettorali – storicamente una scarsa affluenza penalizzava il centrodestra, al contrario di queste regionali – la tendenza ormai è consolidata e in aumento. Il disamoramento degli elettori per le amministrative – questo quando, per esempio, il destino della sanità è nelle mani della Regione – è in seno a un crollo dell’interesse per il voto in generale. Il fenomeno in atto appare inesorabile, inarrestabile: ogni tornata elettorale va peggio della precedente.

 

Pandemia e guerra: la crisi infinita

 

Mentre gli analisti si cimentano con la lettura dell’astensionismo record, criticando lo scarso appeal dei candidati, i programmi dei partiti poco interessanti, l’assenza di temi cruciali per i cittadini, ci sono alcune osservazioni da fare a monte dell’offerta politica. La prima è che se andiamo a vedere gli accadimenti degli ultimi anni e come sono stati vissuti, metabolizzati dai cittadini, emerge chiaramente un calo della fiducia nei confronti delle istituzioni, del governo, prima ancora che riguardo ai singoli partiti. La pandemia prima e la guerra russo-ucraina poi hanno innescato e acuito una crisi economica accompagnata da un crescente malcontento generale. Non a caso, i pochi che sono andati a votare alle elezioni politiche hanno scelto la novità, quasi per disperazione potremmo dire. Hanno riposto la fiducia in Giorgia Meloni, perché tutti gli altri leader erano stati – chi prima chi dopo chi in un modo chi in un altro – bocciati alla prova dei fatti.

E cosa è successo dall’inizio della pandemia a oggi? Che la sanità prima e il carrello della spesa poi sono diventati un problema di soldi. La sanità per le Regioni, la spesa – complice l’inflazione – per i cittadini. E in tutto questo, come possiamo non considerare che il 60% degli italiani è contrario all’invio di armi all’Ucraina e ciononostante il governo italiano continua a inviarle? In tale ottica, un elettore medio – al di là dello schieramento, anche perché FdI e Pd sono accomunati nell’allineamento alla posizione della Nato nel conflitto russo-ucraino – ma perché dovrebbe andare a votare? Se poi – concedeteci un po’ di analisi spiccia, di populismo – tanto al governo fanno come vogliono? E questo è accaduto anche per le regionali, dove in Lombardia nonostante l’astensione si è confermato un quadro in cui il centrosinistra comunque non aveva chance. Mentre nel Lazio, nel dopo Zingaretti – complice anche la crisi del Pd, molto forte nella Capitale – l’effetto traino della vittoria alle elezioni politiche e dell’alto gradimento della premier hanno premiato il centrodestra (a trazione FdI, appunto).

Poi ovvio che gli elettori di centrosinistra potrebbero aver disertato le urne proprio perché si sono sentiti sconfitti in partenza. Un po’ per la carenza dei candidati, un po’ perché ora è il momento della Meloni. Niente più voto ideologico, insomma. Ormai da tanto tempo. Mettiamoci pure una campagna elettorale al lumicino, brevissima, senza grande coinvolgimento dei leader nazionali. Però se sul fronte della maggioranza di governo magari è stata fatta una valutazione del tipo: tanto vinciamo comunque. Sul fronte del centrosinistra, diviso pure all’opposizione, forse andava fatto di più. Ma in casa Pd è in atto la lotta intestina per la segreteria, e nel M5S di Conte c’è stato un errore di valutazione: non sono bastate le dirette dell’ex premier in mezzo “al popolo” per recuperare voti. Il risultato è stato che pure dove erano uniti, Pd e M5S hanno perso.

Serve un cambio di passo

I partiti non sono più quelli di una volta, è un ritornello che accomuna molti analisti. I leader politici spesso vivono parabole rapide che li portano dalle stelle alle stalle nel volgere di un paio di consultazioni elettorali. Poi arriva il candidato forte, oppure la novità e qualcuno torna a votare. Ma dai sindaci al premier, tanti italiani non si sentono rappresentati, perché vince chi prende più voti tra i pochi che votano. E’ la democrazia, d’altronde. Per riportare il grosso degli elettori alle urne serve un cambio di passo: l’offerta politica deve rispondere alla domanda dei cittadini. I partiti devono rientrare in sintonia con gli elettori storicamente di riferimento. Altrimenti non se ne esce e alle prossime elezioni – ossia le europee – l’astensionismo crescerà ancora.


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