Attualità

Attori da urlo nei film sbagliati salvati dal doppiaggio italiano

di Nicola Santini -


Dalle pellicole di Hollywood a Netflix, gli accenti più improbabili e le scelte più infelici realizzati sui cast dei grandi capolavori del cinema americano.

Se c’è un vanto, al netto delle posizioni politiche, per cui valga la pena dichiararsi patrioti, è il doppiaggio italiano, capace di rendere credibile anche la peggior interpretazione nel piccolo e grande schermo. Se ne parla poco, lo diamo per scontato perché sulle nostre tv, generazioni su generazioni si sono abituate a vedere film con le voci dei nostri doppiatori che hanno dato fascino, mistero, severità e sex appeal ma anche comicità, intelligenza e tutte quelle caratteristiche che fanno di un buon ruolo, un autentico personaggio. Questo giustifica anche perché certi film e certe serie di incerto successo nei Paesi di origine, acquistino grande seguito quando sbarcano nello Stivale. Ma da quando il digitale ha preso a circolare un po’ ovunque e la volontà di misurarsi con le lingue (ma non solo) ha spinto molti di noi a voler vedere i film in lingua originale, dando a Cesare ciò che è di Cesare, ecco che alcune interpretazioni, prive del paracadute vocale, risultano poco credibili, con accenti improbabili e poco adatti al ruolo interpretato. Se da un lato, infatti, veder recitare un attore nella propria lingua, a detta dei più esperti, è tutta un’altra esperienza, in alcuni casi, specie quando si va a interpretare un personaggio di un’altra nazionalità, la riuscita non è sempre una garanzia e il risultato finale, talvolta grottesco. Un po’ come certi piatti italiani serviti nei ristoranti del mondo dove abbonda il parmigiano grattugiato anche dove non è previsto. Sbagliati gli attori o sbagliato il film? Sbagliata la scelta, mettiamola così. L’importante sarebbe pensarci prima. L’Identità è andato a scovare alcuni ruoli infelici, dove volto e capacità interpretativa non sono bastati. A partire dal Gengis Khan datato 1956, dove un improbabile quanto gettonatissimo John Wayne, nel film Il Conquistatore, tutto poteva sembrare tranne un mongolo. A poco servirono il trucco e i baffetti. La scusante dell’epoca era il cosiddetto whitewashing, ossia l’abitudine di riproporre in salsa bianca qualsiasi ruolo. Oggi sarebbe impensabile, all’epoca una scelta infelice. E in questo caso, il minore dei mali di un film a dir poco sfortunato. Gran parte delle riprese, infatti, furono realizzate in una zona del Deserto dello Utah ad alta densità radioattiva e novanta persone tra cast e troupe, tra cui lo stesso Wayne, negli anni successivi si sono ammalate di tumore e sono morte. Si è scusato anni dopo per aver smaccatamente sbeffeggiato con la sua interpretazione, tutti
gli stereotipi dell’epoca sui giapponesi. Era il 1961, la pellicola indimenticabile “Colazione da Tiffany”, il ruolo terribile Mr Yunioshi di Mickey Rooney, che di giapponese non aveva niente. Succede anche nei cult. Quella che doveva risultare una macchietta, fu poi tacciata di autentico razzismo. Dieci anni dopo “Il braccio violento della legge”, dove Fernando Rey interpreta con accento improbabile il narcotrafficante francese Alan Carnier. A fine riprese tutti si resero conto dell’inadeguatezza della lingua, ma ormai era tardi. Noi ce lo guardiamo in italiano e ci passa la paura, ma i francesi non sono noti per l’ironia. Le origini italiane di Robert De Niro gli sono state sufficienti per dare il volto a personaggi nostrani, ma zero in lingua: l’attore non parla una parola di italiano nemmeno sotto tortura, quindi, se volete farvi due risate, vedete la versione originale nel memorabile ruolo ne “Il Padrino Parte II” dove si capisce quanto non abbia idea di cosa stia parlando quando si esprime in siciliano stretto nei dialoghi dove non azzecca un solo accento e una sola pausa.

Chapeau, tanto per rubare una parola alla Sorbona, alla capacità di imparare a memoria, però. Da ridere anche sentire Tom Cruise in Protocollo Fantasma, dove si finge un ufficiale russo al Cremlino, ma nessuno, ovviamente, si accorge della truffa. Ancora ci domandiamo perché abbiano scelto di impiegare Willem Dafoe per intepretare in italiano Pier Paolo Pasolini. Succede quando si punta solo sulla somiglianza fisica. E poi c’è lei, Penelope Cruz nel ruolo di Donatella Versace in American Crime Story: The assassination of Gianni Versace. Per non parlare di Antonio Banderas nei panni di Antonio D’Amico. Due spagnoli a interpretare due italiani. Per le produzioni americane noi latini siamo tutti uguali, poco importa se l’accento importante della Cruz, in termini di improbabilità, sia secondo solo all’inglese della Donatella originale.


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