Politica

AU REVOIR MESSIEURS

di Eleonora Ciaffoloni -

ENRICO LETTA POLITICO STEFANO BONACCINI POLITICO


“Elly Schlein riuscirà laddove io non ce l’ho fatta”. Così Enrico Letta saluta e lascia il Pd, il partito che ha guidato per due anni e che però ora non sembra lo stesso che l’ex premier ha ereditato. Un strada tortuosa, certo, ma che ha visto più fallimenti che successi. Ad oggi, Enrico Letta “non ce l’ha fatta” evidentemente, a tenere insieme un partito che era già in crisi. Anche tra i dem le accuse nei confronti dell’ultima dirigenza sono quelle di aver lasciato un partito “a metà”. Una spaccatura che si è vista bene anche nel voto delle primarie. La vittoria di Elly Schlein ha mostrato la netta divisione tra i fedelissimi del partito (e quindi i tesserati) che hanno preferito a mani basse Stefano Bonaccini, e i simpatizzanti dem che si sono recati ai gazebo nella giornata di domenica per barrare la casella della candidata. Un risultato specchio di una segreteria e di una mentalità col cosiddetto “paraocchi” che ha influenzato anche il governatore dell’Emilia-Romagna. Un disequilibro che potrebbe significare possibili screzi interni al Partito, già in progressiva frammentazione: da una parte c’è un Pd filo-cinquestelle e filocontiano, ovvero quello orientato ai diritti civili, al radicalismo di massa e aperto alla riunificazione della “ditta” giallo-rossa più vicino all’emisfero Schlein. Sull’altra sponda c’è un Pd più “riformista” che non pensa di allearsi ancora con il partito di Conte, ma che anzi strizza l’occhio al governo di Giorgia Meloni e si dice anche pronto alla collaborazione. C’è chi guarda al centro e chi guarda a sinistra, ora. Ma Enrico Letta in questi mesi lo sguardo lo ha messo sotto la sabbia senza accorgersi – o senza volerlo fare – che il suo gruppo stava perdendo il senso di unione e di identità. Dalla sconfitta del 25 settembre scorso, le forze dell’ex segretario sono finite, dopo averle tutte indirizzate in una campagna elettorale fatta solamente di appelli al “non voto” per Giorgia Meloni senza una vera presentazione di un programma e di obiettivi. L’inizio della fine: se il Partito Democratico si è “salvato” alle urne delle politiche di settembre raccogliendo il 19% e attestandosi come il secondo partito più votato, da quel momento è iniziata la lenta discesa dei consensi. Da quel momento Enrico Letta, annunciando di voler lasciare la segreteria del partito – ma senza farlo subito – ha messo in stand by un gruppo che invece aveva bisogno di una guida stabile, nel momento più difficile. E non solo: da settembre alle primarie sono passati cinque, lunghissimi, mesi che non hanno unito e rafforzato, anzi. Il continuo rimando al congresso e alle primarie hanno quasi fatto dimenticare il ruolo attuale del Partito Democratico, ovvero quello di fare opposizione al governo più a destra della storia della Repubblica italiana. E con un segretario ancora in carica, ma apparentemente vacante, i dem hanno cominciato a perdere fiducia negli elettori. E non sono solo le proiezioni sull’apprezzamento (che danno il Pd al 15-16%) a dirlo, ma anche i numeri che sono arrivati dalle elezioni regionali di metà febbraio, che hanno dato come risultato la supremazia della destra, con la perdita anche della Regione Lazio, passata da Pd a Fratelli d’Italia. Fare meglio di Enrico Letta significherà guidare un partito, mantenendo un posizionamento chiaro, lasciano un occhio all’interno – senza caderci dentro – ma soprattutto lavorare fuori non solo in Parlamento, ma tornando a riguadagnare la fiducia degli elettori che negli ultimi mesi l’hanno persa, andando ad aggrapparsi a quei gruppi limitrofi che una speranza di cambiamento sembrano darla. Il lascito di Letta è tutt’altro che un partito unito e una dirigenza serena, come lui stesso afferma. E infatti, per la nuova segretaria questo sarà il primo nodo da sciogliere con una chiara direttiva: non seguire le orme, ma battere una nuova strada.

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