Politica

Autonomia si può

di Ivano Tolettini -

ROBERTO CALDEROLI MINISTRO


Ma siamo sicuri che nessuna Regione ci perderà con l’autonomia differenziata, mentre i vantaggi saranno superiori per quelle realtà che sono dotate (o sapranno dotarsi) di una più efficiente macchina amministrativa? L’agenzia di rating Standard & Poor’s nel suo report mensile di fine marzo, sulla cui attendibilità è sempre bene andare cauti perché a gennaio predicava per il 2023 una lieve recessione per l’Italia ipotizzando un calo del Pil dello 0,1%, mentre a marzo vede già un miglioramento dello 0,5%, un incremento del Pil dello 0,4% a fine anno, perciò un cambiamento netto di prospettiva – tanto che le previsioni del governo scritte nel Def ipotizzano un aumento dell’1% -, afferma che con l’autonomia differenziata non ci sarà alcun effetto sui bilanci delle Regioni. Nel senso che l’aumento del decentramento regionale non dovrebbe (e l’uso del condizionale è significativo) deteriorare i saldi di bilancio e del debito regionale. Sarà davvero così? Tuttavia, l’agenzia si premura di sottolineare che potrebbero (ecco che il condizionale ritorna) aumentare i divari tra le regioni. Del resto, non è un caso che il prof. Mario Bertolissi, già ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Padova, e componente della commissione dei 61 esperti che dovranno individuare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), l’altro giorno argomentando sui ritardi e i limiti del Pnrr, ha scritto sul Corriere del Veneto che “lo Stato italiano non ha mai costituito un esempio sul piano dell’organizzazione e del buon funzionamento della macchina amministrativa”. Ma se questo quadro è verosimile, tenuto conto che il processo autonomista necessita dell’individuazione di criteri per attribuire le competenze alle Regioni; poi dovrà verificare i meccanismi per finanziarle senza creare distorsioni, quindi dovrà definire i Lep per consentire ai territori di partire allo stesso livello, si comprende da un lato che il ruolo dell’apparato burocratico sarà decisivo e dall’altro che i rischi che la riforma commetta passi falsi sono concreti.
Lo stesso Bertolissi sottolinea che “nulla o quasi è a portata di mano se la Pubblica Amministrazione non funziona: l’ho provato con i fatti, in vari libri e saggi”. Ecco perché è fin troppo chiaro da adesso che l’autonomia troverà lo scoglio più insidioso nel funzionamento della macchina burocratica: a livello centrale ed a quello decentrato.

IL PERICOLO

È bene chiarire che l’approccio all’autonomia sconta una duplicità intrinseca ad ogni riforma dell’organizzazione dello Stato, che comporta uno stravolgimento: scindere la componente ideologica (ovvero le dichiarazioni di principio che sono propedeutiche ma che non incidono nel pratico), da quella pragmatica (la previsione effettiva dei risultati in base anche all’esperienza burocratica). E già qui cominciano i problemi. Per essere concreti, se a oltre vent’anni dall’introduzione dei “Livelli essenziali di assistenza” (Lea) in campo sanitario si assiste a differenze rilevanti per l’offerta sanitaria tra Regioni nelle prestazioni fornite ai cittadini, tanto che la migrazione sanitaria interna rimane molto forte sull’asse Sud-Nord, è davvero pensabile che l’autonomia amministrativa aiuterà a colmare queste marcate divergenze oppure le accentuerà? È altresì vero che se la paura del cambiamento è un freno alle riforme che sono necessarie per venire incontro ai tempi nuovi, l’immobilismo rappresenterebbe il costante compagno di viaggio di ogni organizzazione statuale, prodromico però al peggioramento del quadro d’insieme e in prospettiva foriero di una possibile (auspicata da qualcuno?) implosione.

CONCRETEZZA

Ecco spiegato il motivo per il quale per dare attuazione al disegno di legge Calderoli, approvato dal governo Meloni il 15 marzo, uno dei passaggi cruciale è la definizione e la successiva quantificazione dei Lep, cui è stato demandato il lavoro al Comitato dei 61 esperti presieduto dal prof. Sabino Cassese. La commissione dei saggi di varia provenienza dovrà dare forma a questo strumento per stabilire il livello di ogni servizio delegabile dal centro alla periferia in base ai fabbisogni e ai costi standard. Facile a dirsi, un po’ meno a quantificare il tutto, vista l’esperienza fin qui dei Lea e considerato il rischio che il governo potrebbe perdere il controllo della spesa pubblica. Se ciò avvenisse, ad esempio, le previsioni di S&P in materia di debito pubblico andrebbero a farsi benedire. Non sfugge, inoltre, che la valutazione ( o mediazione che dir si voglia) politica per le varie poste di spesa sarebbe comunque rilevante, in grado di modificare i saldi teorici. Non va dimenticato, ad esempio, che il quadro politico d’insieme potrebbe condizionare pesantemente la gestione centralizzata, piuttosto che quella regionale, di variabili strategiche come energia, trasporti e credito in presenza di crisi globali (pensiamo a una guerra).

PEREQUAZIONE

È il cuore della riforma, perché i soldi finanziari condizioneranno tutto. “È stato stabilito – ha detto ieri nell’audizione alla commissione Affari costituzionali della Camera, Elisabetta Casellati, ministra per le Riforme istituzionali – che la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) è una precondizione per le intese tra Stato e Regioni e il coinvolgimento delle Camere sarà determinante. Poiché nessuna Regione deve essere lasciata indietro, sono intervenuta per garantire un ruolo determinante del fondo di perequazione, secondo il principio di sussidiarietà”. Per parte sua Roberto Calderoli, ministro degli Affari regionali, ha ripetuto presentando la riforma al direttivo di Confagricoltura che “l’obiettivo base della riforma è di permettere a tutti i territori di sviluppare al meglio le proprie potenzialità, garantendo così a tutta l’Italia di correre unita come un treno ad alta velocità”. Il ministro, rispondendo a chi contesta questa visione ottimistica, in particolare il centrosinistra e i sindaci di quell’area politica, ha affermato l’esponente della Lega Nord, che proprio ieri ha festeggiato il 39esimo di fondazione allorché Umberto Bossi si recò in uno studio notarile con la moglie Manuela Marrone, Giuseppe Leoni ed altri, che “ ho posto il caso di un padre con due figli, uno studioso e l’altro meno: la scelta giusta per ridurre il divario tra i due è stimolare il figlio meno studioso ad impegnarsi oppure frenare quello più studioso? Naturalmente la prima, e lo stesso voglio fare con l’autonomia differenziata. È una sfida di responsabilità che il Paese può vincere da nord a sud”. Il modello di finanziamento basato sulla compartecipazione per ogni funzione delegata a una regione, costituirà uno dei passaggi critici che determinerà il successo o meno della riforma autonomista.

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