Politica

BABELE ITALIA

di Giovanni Vasso -


“L’Italia dell’autonomia? Sarà una Babele”. Così il giurista Gaetano Azzariti, professore ordinario di Diritto Costituzionale all’Università La Sapienza di Roma che analizza, a L’Identità, la riforma fortemente voluta dal governo.

 

Professore, perché ha definito il progetto dell’autonomia differenziata “spacca-Costituzione”?
La proposta dell’autonomia differenziata viene presentata come attuazione della Carta: del terzo comma dell’articolo 116. C’è però attuazione e attuazione. La mia impressione è che, ove la riforma fosse realizzata nei termini che si stanno delineando, si imporrebbe un modello di autonomia diverso da quello definito dai principi supremi nel nostro ordinamento costituzionale negli articoli 2, 3 e 5. Questi principi imporrebbero un regionalismo di tipo “solidale”, mentre il modello che si sta delineando è di tipo “competitivo”. Perciò dico che spacca la Costituzione.

 

Alle Regioni si vogliono affidare le chiavi del Paese. Ma quale è lo stato di salute del regionalismo oggi?
Siamo ad un finale di partita. Il regionalismo non ha mai avuto vita tranquilla in Italia, neppure quello solidale s’è mai realizzato. Dopo la riforma del titolo quinto, nel 2001, sono aumentate le incertezze. Tant’è che tutti oggi vorrebbero cambiare, sebbene in direzioni spesso opposte. Se si scorre la giurisprudenza costituzionale, ci si rende conto della fatica che ha fatto il nostro giudice delle leggi per ridefinire un qualche equilibrio che nel testo non c’era. La mia impressione però è che con il ddl Calderoli e con le norme inserite nella legge di bilancio per la determinazione dei Lep, non si raggiunge un traguardo stabile, ma si aumenta la confusione.

 

In che senso?
Credo che un legislatore consapevole, imparando dalla storia irrequieta che abbiamo alle spalle, dovrebbe tornare a ridiscutere a fondo il modello di regionalismo che si vuole attuare, sforzandosi di tornare ai principi scritti, ma non realizzati, della Costituzione. Dovrebbe, ad esempio, non tanto limitarsi a preoccuparsi di distribuire materie e competenze alle regioni più fortunate dal punto di vista delle risorse e delle possibilità di sviluppo, in base alle richieste di quest’ultime, quanto assicurare una differenziazione e articolazione delle funzioni in grado di assicurare l’unità ed indivisibilità della repubblica, nonché il rispetto dei principi di eguaglianza nei diritti entro tutto il territorio nazionale. In fondo è questo che pretende l’articolo 5 quando scrive che è necessario promuove le autonomie.

 

Eppure ci sono i Lep…
Si è predisposto un meccanismo di definizione dei Lep forzato, e non privo di ipocrisia. Le forzature sono quelle che assegnano ad una cabina di regia e a un comitato di tecnici la loro determinazione, che verrà poi formalizzate da un dpcm, escludendo ogni più meditata discussione parlamentare. L’ipocrisia è dettata dal fatto che si dovrebbe ben sapere che non basta “determinare” i Lep perché i sottostanti diritti economici e sociali possano ritenersi garantititi. Per assicurare l’effettività della tutela è essenziale anche impegnare le risorse economiche necessarie e sufficienti. Non si può ritenere di aver conseguito il risultato limitandosi a porre un’asticella sotto la quale non si può andare, occorre preoccuparsi anche delle necessarie variazioni di bilancio e redistribuzione delle risorse. Invece nella legge di bilancio si legge che i Lep saranno determinati senza prevedere ulteriori costi. Così non si può fare.

 

Quali tempi prevede per questa riforma?
Si sta accelerando moltissimo, andando anche oltre i limiti di velocità consentiti in un ordinato ordinamento democratico. Sia la legge di bilancio (per quanto riguarda i Lep) sia il disegno di legge Calderoli (per quanto riguarda la definizione delle intese con le singole regioni) stabiliscono delle procedure assolutamente accelerate. Impone a tutti soggetti interessati il compimento di atti di verifica e controllo (mai di contrattazione e di discussione reale) entro spazi di tempo strettissimi, tra i trenta e i sessanta giorni. Così al Parlamento, che già non conta nulla, non gli si dà neanche il tempo di meditare e discutere. Si va avanti come Caterpillar.

 

A proposito di parlamento…
Il dibattito sulla necessità di assegnare un ruolo al parlamento nella definizione delle intese è il più discusso, da sempre. Ha persino investito la maggioranza, trovando voci in Fi e Fdi. L’obiettivo dovrebbe essere quello di permettere al parlamento di modificare ed emendare, il testo dell’intesa in via di definizione. Insomma, fare un gioco a tre: Regione interessata, governo e parlamento. Cosa è stato concesso nell’ultima versione del ddl Calderoli? Ebbene, se prima ci si limitava a chiedere un parere alla commissione, entro 30 giorni, adesso si concedono 60 giorni e si afferma che potrà essere l’assemblea, e non la sola commissione, a dare un indirizzo, non vincolante. Ma dal punto di vista sostanziale non cambia nulla. In realtà si vuole continuare a far sì che la partita sia rigorosamente a due tra Regioni e governo. Decide comunque l’esecutivo. Il parlamento non ha potere di emendare, solo di verifica e di ratifica.

 

Come sarà l’Italia che verrà?
Sarà una Babele. Ogni Regione parlerà la sua lingua, incomprensibile agli altri. E noi sappiamo che la mancanza di comprensione è sempre alle origini di conflitti e lacerazioni. Mi permetto un suggerimento: chi vuole attuare il terzo comma dell’articolo 116 non in chiave conflittuale, dovrebbe partire dall’attuazione del 119 secondo cui è necessario individuare fondi perequativi a favore delle Regioni meno sviluppate. Solo una volta ristabilito un principio di uguaglianza si potrà procedere. Altrimenti, le disuguaglianze si accentueranno.


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