Politica

Barbaro sognante

di Ivano Tolettini -


Il cuore caldo dell’attivista padano, quel Bobo da Lozza, che a metà degli anni Ottanta solidarizza con chi impugna la bomboletta spray e scrive sui cavalcavia lombardo-veneti “Roma Ladrona”, prodromo della “rivoluzione nordista” che avrebbe voluto ambire alla secessione annacquata nell’autonomia “madre di tutte le battaglie”, lascia spazio all’eminenza critica del movimento diventato partito di massa, prima di liofilizzarsi di nuovo nelle urne invocando lui per primo “un nuovo corso, a partire dal segretario” Matteo Salvini, dalla leadership sbiadita. Nel mezzo la straordinaria parabola di chi, assaporando l’estasi del rimirar le stelle del potere al massimo livello, da vice premier a 39 anni nel primo governo Berlusconi fino a due volte ministro degli Interni e una del Lavoro, nonché governatore della Lombardia dal 2013 al 2018, è consapevole di quanto la fortuna politica sia fugace, ma soprattutto mignotta. Proprio come invita il testo sapienziale del Qoelet, che il Bobo da Lozza apprezza, perché il saggio deve temere la “vanità di vanità”. Maroni da riflessivo cavallo di razza che predilige più il versante istituzionale che quello di partito, anche dopo la malattia che ha menomato l’Umberto, ne è così consapevole che non batté ciglio nella palude della contestazione più dura dei seguaci del Senatur, il 5 aprile 2012, quando è insultato al grido di “buffone” in via Bellerio. La sua auto è cosparsa di volantini col “bacio di Giuda”, poco prima di assumere la segreteria federale al posto del leone affaticato e caduto definitivamente in disgrazia anche per gli scandali del tesoriere Belsito e di quelli familiari.
Per questo Roberto Maroni, spentosi a 67 anni ieri alle 4 nella sua casa di Lozza, alla periferia di Varese, circondato dall’amore della moglie e dei tre figli che lo hanno sempre scortato nella lunga via crucis del tumore che lo aveva colpito alla testa ancora quando era presidente della Regione – ed ecco il motivo per il quale non si era ricandidato lasciando spazio ad Attilio Fontana -, ha vissuto con inguaribile ottimismo fino all’ultimo, nascondendo l’effettiva gravità del male. Come ha ricordato commosso il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, quando a proposito del bonus pensioni ha detto che è stata la sua norma. Deputato dal 1992 al 2013, è stato protagonista della stagione del traumatico passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, rappresentando con il Senatur il punto di riferimento dell’elettorato al di sopra del Po, mito celtico con il quale sornione giocava, e partner strategico dell’alleanza di centrodestra inaugurata da SilvIo Berlusconi con la sua discesa in campo del 1994. Va ricordato un Maroni di lotta, come quando morsicò un agente e fu condannato in via definitiva per resistenza nell’inchiesta sulla “Guardia Nazionale Padana” nel 1996, e uno di governo quando da ministro degli Interni si è intestato i decreti sulla sicurezza, aggravando le pene ad esempio per chi guida in stato d’ebbrezza e nel 2009 introducendo il reato di stalking. Uscì a testa alta in Cassazione perché il “fatto non sussiste” da infondati favori quand’era governatore e non si rassegnò mai dell’omicidio, nel 2002, delle nuove BR del suo consulente al ministero del Lavoro, l’economista Marco Biagi, nonostante sei mesi prima dell’agguato avesse sollecitato al prefetto di Roma “la necessità di ogni attenzione”. “Sono rimasto un barbaro sognante”, scriveva sul Foglio e agli amici di tante battaglie. Si erano stupiti, lui così premuroso, non ricevendo alcuna risposta ai messaggi lo scorso fine settimana.


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