Politica

Berlinguer e la doppiezza della questione morale

Quando c’era Berlinguer. Berlinguer, ti voglio bene. Il leader sardo è, per la sinistra italiana, un'icona alla pari di Che Guevara.

di Alessio Postiglione -


Fra biografia ed agiografia, mito fondativo per i comunisti, che cattivi come i sovietici poi tutto sommato non erano; eroe carismatico e frugale, propugnatore della diversità antropologica della sinistra, fra pauperismo e antimodernismo, tale da piacere anche a chi comunista non era. Anzi, “qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona”. Berlinguer è stato sicuramente un grande leader. Ma la verità è che egli ha inoculato nella sinistra il populismo moralista, depoliticizzando un partito che aveva ben presente la distinzione fra le weberiane etica della convinzione e della responsabilità. Quella per la quale non bisogna seguire le idee in astratto, ma calcolare le conseguenze concrete delle azioni. Berlinguer, invece, ha favorito la nascita di una nuova sensibilità manichea, quella della lotta alla casta, che sostituisce all’analisi politica il pregiudizio morale. Riposizionando il Pci, da partito cementato nella dialettica marxista del materialismo storico, in “comunità immaginaria” ideale e astorica, aliena agli interessi concreti e alle determinanti storico-politiche, cioè alla logica di Yalta.
Il leader sardo è stato criticato da destra, centro e sinistra. Ciò che gli si imputa può essere, di volta in volta, pregio o difetto. Traditore della causa rivoluzionaria attraverso la strategia del compromesso storico siglata con la Dc o chi portò il Pci fuori dall’angolo in cui era stato ricacciato con la conventio ad excludendum? Traditore dell’Urss, da cui prese le distanze, o colui che saggiamente si collocò con la Nato e l’Occidente? In antitesi rispetto alla spinta modernizzatrice di Craxi o giustamente ancorato su altre posizioni, magari cercando una terza via? Ma se ognuna di queste scelte può essere oggetto di autonome valutazioni, è proprio sulla questione morale che emergono la doppiezza e l’ipocrisia di Berlinguer. Con buona pace di chi l’ha idolatrato, il leader sardo è umano, troppo umano, come gli altri, negli scandali; e comunista, troppo comunista, nel negare la realtà, come solo un comunista sa fare. Al punto da proporre quella narrazione i cui, da una parte, c’era la casta dei partiti “macchine di potere e di clientela” che “gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi”, come disse a Eugenio Scalfari nella storica intervista del 1981. E dall’altra, c’erano loro: i comunisti dalle mani pulite. In realtà, moralisti e bugiardi. Perché, come ricostruisce Gianni Cervetti, membro della segreteria nazionale ai tempi di Berlinguer, nel suo libro del 1993, “L’oro di Mosca”, il Pci era esattamente come tutti gli altri, con finanziamenti illeciti e tangenti. Perché, al di là della purezza delle idee, c’era la realtà. La logica di Yalta, appunto, per la quale gli americani finanziavano la Dc e l’Urss i comunisti. Paradossalmente, accusato dai socialisti di rimanere cocciutamente ancorato al marxismo, Berlinguer lo svuota dall’interno, favorendo la nascita di quella che i sociologi chiamano sinistra post materialista, che abdica alla grigia economia politica di Marx a favore delle più leggere questioni identitarie, che si esprimono nell’alveo della morale, senza mettere in discussione le condizioni materiali che determinavano le contrapposizioni di classe, categoria euristica ora desueta. Ne consegue che Berlinguer, favorendo la depoliticizzazione e il moralismo, abbia favorito la trasformazione qualunquistica della realtà e la crisi dei partiti. Danneggiando forse proprio il Pci e i suoi eredi più di tutti.


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