Cultura & Spettacolo

Berlino non è bellino per niente

di Nicola Santini -


Se una serie funziona è, in genere, se il ruolo dello spregiudicato è ben confezionato.
E la Casa di Carta, che nella sua versione originale che ha fatto impazzire tutti per me era già da bollare come esercizietto di stile fatto per épater les bourgeois, in questo spin off dove si tenta di dare un prequel attraverso la genesi di Berlino, quello, appunto, che non è per nulla uno stinco di santo, si pecca di vanità e superficialità. Che, probabile, è tutto ciò che quel pubblico cerca e apprezza e che a me, che non sono uno certo da supercazzole, quando è tutto esercizio di stile, dopo un po’ mi dà la nausea perché per me il dessert arriva giusto alla fine. Ed è questo che mi lascia in bocca.

Non l’amaro, stiamo sempre e comunque a parlare di un adorabile canaglia, ma un dolciastro, esagerato, ripetuto, come un all you can eat di scene telefonate, di colpi di fotografia e di battute ormai attese, isolando il protagonista che se nel primo verso era molto ben inserito nel contesto perché in grado di prendersi la scena, nel prequel in qui la scena gli viene offerta fin dalla locandina, poi mi diventa stucchevole e la tentazione di guardarlo a velocità 1,5, confesso, è stata più volte soddisfatta.

Detto questo le serie così, che usano la macchina del tempo, come nel caso di Charlotte in Bridgerton, dove la regina che nella serie principale era un’amabile e dissacrante stronzetta, poi nel prequel, condita di sottotesti a sfondo riflessivo per impiantare valori su una che ci piaceva per eccentricità e stop, spalmata su un’intera serie incentrata interamente su di lei, perdeva in verve (ma guai a dirlo).
E ora tocca a Berlino, il fratello del Professore, nella sua eccentrica follia, i suoi gusti blasonati, sembrava reclamare ha un posto in quel podio dei cattivi con un cuore di troppo che fanno intenerire gli allocchi fanatici di serie.

Il tema però, a onore del vero è che, se da un lato La Casa di Carta senza Berlino sarebbe stata di una noia mortale, Berlino per conto suo poi pecca di rotondità, in quel girare tutto intorno a una psicologia che vuole esser complessa ma che ormai, trita e ritrita è a pieno diritto il pensierino del momento e lo declassa da anima trasgressiva ed eccentrica per natura, a macchietta scontata e tristarella per forzatura, non so se mi spiego.

E se l’interpretazione di Alonso che gli presta volto e gesta è ineccepibile, tutto il prodotto nel complesso non è che non valga la pena di essere visto, ma forse, con uno specialino di 45 minuti in una puntata guardona, avrebbe più che soddisfatto gli appetiti. Per la serie, almeno secondo, me, che è bene alzarsi da tavola quando non si è ancora completamente sazi. E sì, dopo cinque stagioni, otto puntate di spin off dove le novità sostanziali sono il nome di battesimo che precede il soprannome e il fatto che Berlino (qui Andrés) non sia ancora a tu per tu con la propria malattia, boh, mi sembrano un voler mungere la vacca fino a vederla stramazzare al suolo.


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